Angelo Fortunato Formiggini, l’italiano: l’intervista allo storico Roberto Vaccari

Lo scorso novembre, lo storico Roberto Vaccari ha pubblicato un libro dal titolo “C’è poco da ridere. Angelo Fortunato Formiggini, l’italiano” (Elis Colombini). Si tratta di una vera e propria biografia dell’editore, scrittore e filosofo modenese morto suicida, gettandosi dalla Ghrilandina, nel 1938.

Vaccari, com’è nata l’idea di scrivere questo libro?
Sono sempre stato un grande appassionato di questo personaggio. Ho voluto collocare la figura di Formiggini all’interno della storia del paese, allargando dunque il campo, e parlando anche delle tematiche che hanno riguardato la sua vita.

Che personaggio era Formiggini?
Il titolo del libro “C’è poco da ridere” parafrasa il suo carattere. Era conosciuto come un uomo molto spiritoso e amante del bel vivere. Si occupava di cultura ad altissimo livello, ma la sua seconda tesi di laurea riguardava proprio il ridere, nel senso bello del termine e in quanto attività umana dello spirito. Affermava spesso che “quando ridi, tutto il male viene sconfitto”. Era sicuramente una persona benestante, e amante del libro come oggetto e patrimonio culturale. In conclusione possiamo affermare che era un uomo con una sconfinata cultura e questo riusciva a metterlo in pratica nei suoi libri.

Come mai scelse di togliersi la vita in un modo così “spettacolare”?
Il suo percorso di vita sbatté contro il fascismo, che gli portò via la sua creatura, la Fondazione Leonardo, la quale avrebbe dovuto promuovere la cultura del libro in tutto il mondo e di cui lui si era preso a carico costi e oneri. Le leggi nel ’38 misero fine sia alla sua attività editoriale che alla sua sensibilità umana che non aveva mai sopportato le imposizioni. Infatti le leggi razziali stabilivano che non solo la casa editrice non potesse avere il nome di un ebreo, ma che anche non potesse appartenere ad un ebreo. La sua morte non fu una provocazione, ma un piano studiato approfonditamente. Nei mesi precedenti troviamo, infatti, lettere e altri scritti in cui Formiggini pensava ad un vero piano di manifestazione di identità personale nei confronti del regime. E’ sbagliato pensare che sia stato l’atto di uno sbandato. Poi, in seguito, sono nate leggende, come quella che vuole che si sia buttato con in tasca dei soldi per dimostrare che non era rovinato economicamente. Sta di fatto che la sua morte venne riconosciuta, anche dai gerarchi fascisti, come il suicidio più noto del regime, nonostante si sia cercato di mettere tutto a tacere.

In che modo lo si fece?
Fu fatto sparire il corpo e pulita la zona dell’impatto. Non fu permesso ai giornali di pubblicare la notizia e il funerale fu concesso di primissima mattina. Non venne pubblicato neanche il necrologio. La notizia della sua morte, però, fece lo stesso il giro del mondo tant’è che ho trovato delle pubblicazioni anche a San Paolo in Brasile. Se ne parlò ovunque ci fosse una persona raziocinante capace di comprendere che, con questo suicidio, il fascismo aveva messo a tacere l’ennesima voce di libertà e giustizia.

Quali ricerche ha dovuto svolgere?
Dopo la sua morte, la battaglia la portò avanti sua moglie, anche lei una grande intellettuale e cristiana, quindi non toccata dalle leggi razziali. Da persona libera ha potuto salvaguardare il patrimonio librario di suo marito. In questo modo tutte le carte di Formiggini vennero donate alla Biblioteca Estense, come lui stesso aveva lasciato scritto. Tra queste possiamo trovare lettere di James Joyce, di Pirandello, di Benedetto Croce e di tanti altri che avevano scambi epistolari con lui. Molti ricercatori hanno già lavorato su queste carte, io sono l’ultimo arrivato e forse quello che ci ha lavorato di meno. Ho cercato di dare un contributo più unitario della sua vita, tralasciando probabilmente dei particolari più interessanti, ai quali penseranno magari gli accademici.

Si è fatto un’idea di com’era Modena in quegli anni?
Era sicuramente una città meno provinciale di quanto si possa pensare. Qualche anno fa ho scritto una biografia su Antonio Delfini, che ha vissuto la stessa epoca di Formiggini, un’epoca molto vivace, sia per quanto riguarda la poesia, che la letteratura e la musica. Naturalmente era una piccola città, in cui mancavano anche alcuni mezzi di comunicazione. Lo stesso Formiggini, che aveva intenzione di fare l’editore a livello nazionale, ha dovuto trasferirsi prima a Genova e poi a Roma.

Lunedì 27 gennaio è stata la Giornata della Memoria. Che cosa può insegnare il sacrificio di Formiggini ai ragazzi d’oggi?
Formiggini è stato un massone, un’appartenente a Corda Fratres, un’associazione internazionale che propugnava la pace nel mondo, ed era un ebreo laico. Nelle sue ultime opere “Parole in libertà” aveva lanciato un appello agli ebrei di tenersi l’ebraismo in casa propria, per il timore di essere visibili. Le leggi razziali, che sembravano così fondamentali, colpivano un italiano su mille. Inoltre gli ebrei italiani erano completamente laici e svolgevano le occupazioni più svariate. L’invenzione delle leggi razziali italiane, dunque, non coglieva neppure l’obbiettivo che aveva Hitler, ovvero quello di distruggere un’intera classe sociale. Sono state uno dei più grandi abomini che il fascismo abbia fatto insieme alla guerra, poiché hanno tolto la dignità alle classi sociali che l’hanno promulgate mettendo in ombra gli italiani che le hanno accettate senza ribellarsi. A Modena, tutt’ora vivono circa sessanta/settanta ebrei, mentre a Roma dei 1019 che furono rastrellati nel ‘43 ne tornarono una ventina. Quindi la memoria va conservata per evitare che tornino a succedere questi fatti.

 

di Mattia Amaduzzi

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