Il cuoco dei tortellini (e molto di più): l’intervista allo chef Carlo Alberto Borsarini

S’intitola “Tutto il buono dell’Emiliaromagna (senza trattino)” il nuovo libro con cui Carlo Alberto Borsarini si racconta, alternando ricette, aneddoti personali e racconti dal territorio, con pagine impreziosite dagli scatti di Nicola Boi. Borsarini è lo chef de “La Lumira”, prestigioso e accogliente ristorante di Castelfranco Emilia, il paese natale del tortellino. Il libro, edito da Minerva, si può acquistare in libreria, su Amazon e sul sito dell’editore.

Borsarini, ci spiega meglio il perché di quella parola nel titolo: “Emiliaromagna”, tutto attaccato?
Perché io stesso sono diviso anche dal punto di vista affettivo fra l’Emilia, dove vivo e lavoro, e la Romagna dove ho legami che affondano nell’albero genealogico della mia famiglia, ma anche amici, e poi la mia famiglia si trasferisce lì nel periodo estivo. Sono due tradizioni che conosco profondamente e porto avanti in modo paritario.

Quanto c’è di emiliano e quanto di romagnolo nei suoi piatti?
La tradizione emiliana parte dai tortellini per arrivare ai bolliti, agli arrosti, e poi gli animali da cortile, la pasta fatta in casa… mentre quella romagnola si connota con la piada, il pesce povero, la mora romagnola, la carne di maiale allevata allo stato brado… Mi piace attingere da tutta la Regione, senza fermarmi solo sul menù tipico della trattoria emiliana. È una filosofia di cucina ma anche una pratica di approvvigionamento delle materie.

La Lumira unisce grande qualità a un’atmosfera di famiglia, di tradizione: è così?
La mia famiglia gestisce questo posto da oltre 50 anni, dobbiamo tornare indietro ai primi anni ’60. Io ci lavoro da più di 25 anni. Per mantenere un ristorante di famiglia a un livello medio-alto e proporre una ristorazione ‘pensante’, c’è bisogno di passione e tanto lavoro. Ci siamo ritagliati uno spazio di cucina all’interno del quale muoverci, e questo spazio è l’Emiliaromagna. Tutta, senza trattino.

In cosa consiste il libro?
Anzitutto parlo di me, della mia famiglia, della mia storia, ma anche del territorio (allevatori, agricoltori, civiltà contadina, cultura del bar, dialetto). Poi c’è una sezione con le bellissime foto di Niko Boi, uno dei più grandi fotografi di food che abbiamo in Italia, e accanto la descrizione filologica del piatto (da dove viene, com’è stato concepito, etc.). Infine ci sono le ricette vere e proprie, che uno può riprodurre autonomamente.

Magari le ricette non saranno accessibili a tutti…
Ce ne sono alcune molto semplici, alla portata di tutti, altre magari un po’ più complesse, ma… gnocchi, tortellini, tagliatelle, passatelli, rosette, coniglio, faraona, bollito… alla fine si fa tutto con un fuoco e una padella. Poi è chiaro che se uno è negato, non riesce a copiare neanche con la carta carbone…

Lei è anche uno scrittore. Il ruolo di chef le sta un po’ stretto oppure è un ottimo osservatorio per raccontare umanità?
Oggi i cuochi hanno una cassa di risonanza maggiore rispetto alla fine degli anni ‘80. È cambiata la cucina in sé, si è arricchita di contenuti, per un fattore di crescita di interesse nel contesto sociale. Mi trovo bene nei panni del cuoco. La scrittura è uno strumento che sapevo usare e lo utilizzo con grande piacere perché mi piace. Se posso contribuire a far della cucina un’arte considerata al pari delle altre, beh, per me è un onore.

Cosa consiglia per il pranzo di Natale?
Beh, i tortellini in brodo non si discutono, sono sulla tavola di tutti gli italiani. Posso dare un consiglio che riguarda il panettone, quello che avanza e rimane a metà, per esempio. A volte faccio per me un bread pudding, uno sformato di panettone con della crema inglese che si cuoce al forno a vapore per 20 minuti, poi si mangia come fosse un semifreddo, diventando un ottimo dolce al cucchiaio.

Vino?
I nuovi grandi lambruschi a metodo classico, e io comunque resto un grande appassionato di Sangiovese.

 

di Francesco Rossetti

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