Parola di professore: a colloquio con Francesco Maria Feltri

Francesco Maria Feltri (foto) è un professore di italiano e storia molto amato dagli studenti, nel senso che gli si riconosce una rara capacità di stimolare, accendere interessi. È anche un oratore con un consistente seguito. Insegna al Liceo linguistico “Francesco Selmi” e venerdì 21 ottobre, alle 21, ha tenuto una conferenza alla polisportiva San Faustino, in via Wiligelmo 72, promossa dall’associazione culturale Le Graffette dal titolo “Americani al voto. Democratici e Repubblicani nella storia degli Stati Uniti”. Ma cominciamo dalla scuola.

Prof, da quanto tempo insegna?
Ormai una trentina d’anni, sono entrato di ruolo nel 1985. Ho insegnato sempre negli istituti superiori.

Si dice che insegnare è una passione? È davvero così?
Dev’essere così, altrimenti uno farebbe meglio a cambiar mestiere.

In qualche caso, tuttavia, si avverte un’assenza di vocazione, non trova?
La difficoltà spesso consiste nel fatto che uno assume un certo modello per il suo mestiere, ma i ragazzi e la realtà socio-economica cambiano. Se non ti aggiorni anche tu, allora il mestiere diventa un incubo. Se invece, mantenendo alcuni punti fermi, sai esercitare un minimo di elasticità, allora resta un gran bel mestiere.

La cosidetta rivoluzione digitale riduce la capacità di attenzione?
Non saprei, forse è ancora presto per dirlo. Lavoriamo ancora sui libri cartacei, che ritengo ancora insostituibili. Noto soprattutto un grosso problema di tipo linguistico, ma non so se è legato ai computer. C’è una minore capacità di dominare la lingua italiana, questo è sicuro.

Un impoverimento del vocabolario?
Sì, e questo crea problemi quando si va a studiare i classici. Perché Machiavelli e Dante diventano una lingua straniera, non l’italiano antico. Le strategie per motivare i giovani ad appassionarsi ai classici devono essere più raffinate che in passato. Bisogna giocare sugli argomenti, sui temi, sfrondare alcuni aspetti che anni fa erano considerati imprescindibili. Il rischio è cadere nel “quando ero giovane…”.

Oggi più che ieri sembra che l’accumulo di informazioni stenti a trasformarsi in conoscenza. È così?
Questo è vero, ma il problema è un altro. È difficile dire oggi che cosa fa di una persona una persona colta. Quando eravamo più giovani noi, c’era un canone più rigido. Se non sapevi chi era Foscolo, non sapevi latino e greco, non eri una persona colta. Oggi è tutto più complicato. C’è un mare di tematiche che sono ugualmente importanti. Oggi puoi dire che non sei una persona colta se non conosci la fisica quantistica o le leggi della termodinamica o la storia del mondo islamico. Si è moltiplicata la gamma delle informazioni che dobbiamo tenere sotto controllo. Questo rende tutto più complesso per gli adulti, figuriamoci per dei ragazzi.

La scuola è anche un osservatorio antropologico della società che cambia. Quanti studenti figli di immigrati ha in classe?
Una quindicina su 120 complessivi. Un buon 10% ma non di più. E ne ho di tutti i tipi, esattamente come per gli studenti italiani: motivatissimi, con volontà di fare, alcuni di loro percepiscono chiaramente che la cultura è uno strumento di promozione molto importante, e poi ci sono i lavativi, quelli che non hanno voglia di studiare. Ritengo però che una chiave del futuro dell’integrazione sia nelle mani delle ragazze islamiche, di questo sono convinto. Sono più sveglie e dimamiche loro dei maschi. Chiedono rispetto, magari indossano il velo, ma sono aperte al dialogo, convinte che la scuola le possa aiutare a trovare un loro posto nella società.

Di Francesco Rossetti

WP-Backgrounds Lite by InoPlugs Web Design and Juwelier Schönmann 1010 Wien