Persone e storie: il cinema secondo Gianni Zanasi

Il film? Comincia quando c’è qualcuno che lo guarda. Penso addirittura che lo spettatore sia in questo senso l’ultimo regista. Quando c’è qualcosa per cui ne valga la pena, se lo prende e se lo porta a casa. Quindi grazie di essere qua e buona visione, anzi buon lavoro!”. Lo dice Gianni Zanasi al pubblico in sala prima della proiezione del suo ultimo geniale film “Troppa grazia”, premiato alla Quinzaine des réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes e avvalorato dalle interpretazioni, tra gli altri, di Alba Rohrwacher e Elio Germano. A Cannes il regista vignolese era andato già nel 1995 con il suo film d’esordio, “Nella mischia”, e ora torna nei cinema con una storia magica e surreale, comica e profonda in cui alla protagonista, Lucia, appare la Madonna, sì, proprio lei.

Gianni, dicono che nei tuoi film racconti la provincia. A me sembra invece che i tuoi siano film universali…
In effetti, già il mio primo film fu distribuito fuori dall’Italia: Francia, Spagna e molti paesi anglofoni. “Non pensarci” è stato venduto in 25 paesi. Anche “Troppa grazia”: è stato venduto in Cina, in tutta Europa e in Australia. E poi non credo che la cosidetta provincia come ambientazione possa diminuire la capacità universale di un film. Pensiamo ad “Amarcord”. Se il racconto raggiunge un’universalità, allora diventa come la musica, che difficilmente ha un’origine definita, piuttosto attraversa i luoghi. I film – quelli che piacciono a me e che in un certo modo mi hanno cambiato e mi cambiano – sono quelli che mi fanno venir voglia di rivederli. È un’eperienza orizzontale, che riguarda tutti, legata al piacere della visione che peraltro è una cosa profonda e va distinta dalla piacevolezza.

Fare film d’autore, come i tuoi, richiede molto tempo?
Dipende, ognuno ha il suo modo di lavorare. C’è chi riesce a organizzarsi meglio di me, magari ha già sceneggiarture pronte o qualcuno che le scrive per lui, o i diritti di un libro… Uno che si organizzava molto bene in questo senso era Truffaut. Io purtroppo mi perdo un po’, ma i miei sono soggetti originali, non tratti da libri, li scrivo io, e questo richiede un tempo di scrittura. Quando hai finito la prima stesura, beh, difficilmente è quella buona. Devi poterla rileggere, riscriverla, modificarla, arricchirla, sfrondarla. Ci sono tempi per la promozione e le prevendite televisive, la preparazione, le riprese che non durano meno di due mesi, il montaggio che ne prende 6-7. Il mio è un percorso meno regolare di altri, ma libero e autorale.

Sei un regista che piace molto agli attori: perché?
Amo gli attori, avrei voluto fare l’attore ma non ho purtroppo quel talento. C’è un imprinting che posso raccontarti. La prima volta che vidi in tv Taxi Driver. Avevo 14-15 anni. Ero assolutamente convinto che l’attore protagonista fosse un vero tassista nella vita. Non conoscevo De Niro. Quando, tempo dopo, ho imparato che era un attore, ho pensato: quindi una cosa così bella, così potente è possibile, si riesce a fare! Il fatto che fossi convinto che fosse un tassista è interessante. Mi ha fatto entrare in quel film senza nessuna difesa, senza nessun filtro. Da lì proviene un mio canone di verità e di gusto che istintivamente cerco di ribadire. Usare le tecniche per arrivare a una verità, non viceversa, non per arrivare a un esibizionismo di tecnica, fine a sé stessa. E comunque l’attore, in termini percentuali, in un fotogramma ti occupa mediamente dal 50 al 65 per cento, quindi è un elemento importante di un film!

Il tuo film inserisce il tema della fede in un contesto quotidiano e contemporaneo…
Non credo in Dio ma ho un istintivo e sincero rispetto per chi crede, in qualsiasi Dio. Mi viene in mente una mia amica attrice che veniva da una famiglia molto cattolica. Mi raccontò che quando era piccola, ebbe una discussione molto accesa con sua madre. La madre le disse: tu devi credere in Dio! E lei rispose: mamma, io non credo in Dio, io credo in Al Pacino. Ecco, ognuno ha il suo dio o anche più di uno. Il film è una riflessione sulla capacità ancora di credere, nonostante i tempi che viviamo in cui la capacità di credere in qualcosa che vada oltre il quotidiano e che appartenga al futuro è messa molto alla prova. Ed è pericolosissimo perderla.

Siamo tutti ostaggio della distrazione?
Sì, un’ebbrezza di distrazione. Viviamo in un’epoca iperinformata che ci da la sensazione deformante di sapere tutto di tutto. Il rischio di oggi è quello di una quotidianità che esilia il sentimento del mistero ed è come perdere un senso.

In “Troppa grazia” si ride, ma è più di una commedia…
Nella vita passiamo continuamente da un genere all’altro, dal ridere alla commozione, alla paura, all’inqueietudine, poi torniamo al ridere. Mi piace fare film che riproducano questo passare da un genere all’altro, come nella vita. La commedia mi permette di rendere più liberi anche gli spettatori.

Anche tu ti sei sentito più libero vivendo a Roma e mettendo una distanza fra te e i luoghi dove sei cresciuto?
Sì, ho sentito il bisogno di andare e l’ho seguito. Senza perdere le radici, perché poi sono rimaste. Lasciare il nido è un’esperienza che ti mette alla prova e ti consente un viaggio, con tutto quello che comporta. Un’esperienza per me indispensabile.

(Nella foto, il regista fra Alba Rohrwacher e Hadas Yaron)

 

di Francesco Rossetti

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