L’arte che crea identità: l’intervista al professor Michele Dantini

E’ stata posticipata al 6 aprile la lezione del professor Michele Dantini (foto) alla Fondazione Collegio San Carlo, in via San Carlo 5, nell’ambito del ciclo di conferenze culturali. “Il ruolo sociale dell’arte. Pratica artistica e costruzione della sfera pubblica” è il titolo dell’intervento dello storico dell’arte contemporanea presso l’Università per Stranieri di Perugia.

Professore, nella recente campagna elettorale per le elezioni politiche italiane, arte e cultura sono rimaste assenti dal dibattito. Come mai?
Perché non fanno parte del dibattito politico. In Italia ma non solo, il politico si è appropriato della dimensione pubblica, così arte e cultura non entrano nella discussione. Il discorso politico segue logiche di consenso, quello artistico/culturale logiche di verità, di onestà intellettuale che purtroppo diventano sempre più minoritarie.

L’arte è dunque fenomeno d’élite?
La politica demagogica, quella dell’oblio e della menzogna, la rende tale.

Di cosa parlerà a Modena?
In avvio cercherò di dimostrare il modo paradossale in cui l’arte può effettivamente costruire sfera pubblica, in chiave artistica ma anche religiosa, divenendo espressione di una comunità. Quindi parlerò nello specifico di arte e fascismo mostrando come, tra gli anni ‘20 e ‘30, artisti che furono decisamente fascisti, ma anche altri che non lo furono, parteciparono, attraverso un comune patriottismo, alla costruzione di un mito figurativo dell’Italia, attraverso temi ricorrenti: la bellezza dei paesaggi, la generosità della terra, l’onestà dei ceti umili, la tenacia, la capacità di lavoro, la capacità di autodisciplina. Vanno a comporre un quadro in larga parte esterno alla contrapposizione fascismo-antifascismo che si stabilizza nel dopoguerra.

E il rapporto con le Avanguardie?
In realtà in quel periodo il termine avanguardia salta. Nessuno, a parte pochi futuristi rimasti, vuole fare più sperimentalismi, lavorando piuttosto in una dimensione popolare. Tutti devono poter accedere e comprendere quadri e sculture.

E l’architettura?
Negli anni ‘30 il più grande critico di architettura italiana, Edoardo Persico, cattolico intransigente e antifascista gobettiano, insiste per il razionalismo, ma sempre in una chiave identitaria, decisamente cattolica.

Lei cita Thomas Mann: come si colloca l’autore dei “Buddenbrook” all’interno della sua riflessione?
In un testo come “Le considerazioni di un impolitico”, scritte nel 1917, Mann parla di una nazione culturale, di una Germania profonda, legata alle credenze, alle fedi, che si contrappone alla nazione politica, che lui esecra. E’ un’arte che costruisce sfera pubblica in senso profetico, mai semplicemente fotografando l’esistente.

Oggi, nell’epoca degli smartphones e della digitalizzazione estrema, l’arte come se la passa?
La forza profetica la ritrovo ancora in alcuni pittori tedeschi: Kiefer, Baselitz. Nei trenta-quarantenni prevale un atteggiamento più ludico di esplorazione dei linguaggi digitali, quasi da intrattenimento.

di Francesco Rossetti

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