Modena Ieri & Oggi: la Grande Guerra e la nostra città

Da diversi anni Fabio Montella porta avanti un appassionato lavoro di ricerca sulla 1ª Guerra Mondiale e sugli effetti che questa ha prodotto sulla popolazione e sul territorio modenese. La prima tappa di questo avvincente work in progress è stata il volume “Modena e provincia nella Grande Guerra”, firmato insieme a Mirco Carrattieri.

Montella, quanto è utile tornare indietro di cento anni e raccontare quello snodo drammatico della nostra storia recente?
Penso sia fondamentale perché la Grande Guerra fu davvero un punto di svolta, sia per come la vissero le popolazioni, anche quelle lontane dal fronte, sia per i grandi avvenimenti internazionali. Al di là della Grande Politica, noi ci siamo focalizzati proprio sulle comunità lontane dal fronte per cogliere quanto questo evento abbia modificato mentalità e condizioni di vita.

È vero che si partiva per la guerra senza comprenderne il senso?
Di sicuro si trattava di una guerra che la maggioranza degli italiani non voleva e non capiva, a parte qualche parola d’ordine veicolata dagli interventisti. Dopo dieci mesi di neutralità l’Italia entrò nel conflitto, sperando di raccogliere i frutti dell’opera altrui. Già allora ci si rendeva conto che la guerra non sarebbe stata rapida. Centinaia di migliaia di italiani furono mandati al massacro.

Soprattutto contadini?
Sì, per la maggior parte. Chi lavorava nelle poche fabbriche che c’erano aveva qualche possibilità di eludere la chiamata alle armi. I braccianti invece vennero strappati, è il caso di dirlo, dalle loro terre. Ho trovato lettere straordinarie di una famiglia di Medolla. Quattro uomini al fronte scrivevano al possidente, preoccupati non tanto per la loro pelle, ma per le condizioni di vita di chi era rimasto. Sapevano che a casa moglie e figli avrebbero dovuto sostituirli nel pesante lavoro dei campi.

Le donne divennero protagoniste?
Sì, questo è uno uno degli aspetti più innovativi del periodo. In altre zone d’Italia, nel torinese e nel genovese, entrarono in massa nelle fabbriche riconvertite all’uso bellico (Fiat, Ansaldo). Quanto a Modena, “il granaio d’Italia”, il dato rilevante riguarda il protagonismo delle donne nelle campagne. Poi, con l’avvento del fascismo, le donne tornarono “nei ranghi”, secondo l’ideologia del nido familiare.

Modena fu un centro importante per la cura dei feriti, vero?
Sì, l’esercito aveva bisogno di adeguate strutture lontane dal fronte, per seguire le prime cure date in prima linea, molto sommarie e invasive. Per intenderci: nel dubbio gli arti non venivano risparmiati, anche per evitare le infezioni. Vennero istituiti nuovi ospedali, spesso scuole adattate ad ospedali. A Modena venne istituito un centro di cure ortopediche al Foro Boario, dove ora c’è la Facoltà di Economia. Per curare i mutilati con nuove protesi che sostituivano gli arti devastati dalle artiglierie di guerra.

Montella, dove ha effettuato le sue ricerche?
Principalmente all’archivio centrale di Roma, in quello di Modena e in alcuni archivi comunali della provincia, un patrimonio preziosissimo che purtroppo spesso è poco accessibile. Ma se perdiamo la nostra memoria, cosa ci resta?

Le è mai capitato di conoscere qualche centenario, magari testimone diretto del periodo?
Mi è capitato con Don Galli di Pievepelago, morto lo scorso anno a 105 anni. Su youtube c’è un’intervista che gli ho fatto qualche anno fa. Era un giovane seminarista a Modena durante la Grande Guerra. Uno degli ultimi, forse l’ultimo, a ricordare bene la devastante epidemia dell’influenza spagnola. Morirono a centinaia nel 1918, anche a Modena.

Intervista di Francesco Rossetti
(Pubblicato su Vivo del 18 giugno 2014)

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