Sulle tracce del Mostro: l’intervista a Gabriele Veronesi, regista del docufilm

Gabriele Veronesi ha firmato la regia de “Il Mostro di Modena”, un docufilm di Taiga che racconta una vicenda di cronaca nera che tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, fece parlare di sé.

Gabriele, com’è nato il progetto?
Come un film unico. All’inizio aveva anche un titolo diverso: “Labbra blu”. Poi in quattro anni di lavorazione sono successe tante cose: la più positiva è stata l’ingresso nel progetto di Crime+Investigation. Sono stati loro a suggerire di costruire due puntate e noi abbiamo accettato. Lo stesso titolo è stato cambiato per comprensibili ragiorni di palinsesto: prima di noi avevano mandato in onda “Il mostro di Udine”, si è creata così una sorta di continuità.

Conoscevi questa storia?
No, ne sono venuto a conoscenza in modo casuale. Il che mi ha fatto pensare, anche perché sono nato e cresciuto a Modena e questa ha tutta l’aria di una storia rimossa. Mi sono messo a fare ricerche in archivio sui giornali dell’epoca per ricostruire non solo i fatti, ma anche il contesto storico, gli anni ‘80-’90. Dalla visione di carte processuali e articoli di giornali, ho cominciato a stendere una prima sceneggiatura e a incontrare i protagonisti.

Come ne esce Modena da questa ricerca storico-giornalistica?
All’epoca il benessere veniva sbandierato, a differenza di oggi che viviamo in una bolla di crisi continua. Fino al 1992 il tema della disoccupazione rimane del tutto marginale. C’era un contrasto fra il “siamo una città efficiente” e storie di cronaca nera da “Milano spara”.

Com’è andato il contatto con le persone coinvolte in quelle vicende?
La svolta è stata incontrare Pierluigi Salinaro che all’epoca seguì quegli omicidi sulla Gazzetta di Modena. Grazie a lui, sono riuscito a entrare in contatto con i protagonisti reali della storia. Alcuni li ho incontrati, senza filmarli per il film.

La proiezione al Raffaello è stata un successo: ce ne sarà un’altra?
Purtroppo abbiamo dovuto lasciare fuori della gente. Ci piacerebbe organizzare un’altra visione, vorremmo rimediare per chi quella sera è rimasto fuori.

Quali modelli visivi avevi in mente?
Ci sono tante serie Crime da due episodi su Netflix che hanno un approccio documentaristico e insieme una cura dell’immagine molto elevata. Noi volevamo evitare quel solito stile un po’ frenetico di alcune trasmissioni televisive che puntano sul pathos. Volevamo cercare di far pensare un po’. Come riferimenti direi per esempio “The Jinx” di Andrew Jarecki. E tutto il lavoro di Errol Morris.

Perché la cronaca nera attrae da sempre il pubblico e gli artisti?
E’ una domanda che mi sono posto anch’io. Forse dietro c’è l’esigenza di esorcizzare la morte. Si guardano cose poco piacevoli con un tasso di violenza e brutalità, come se volessimo sottoporci a un rito per dire a sé stessi “l’ho superato”. Però la gran parte del pubblico guarda questi prodotti, come le serie tv, solo se gli vengono servite in modo piatto: storie dove alla fine tutto torna, rassicuranti. Nel mia ricerca, invece, guardare le fotografie reali mi ha fatto stare ben legato alla realtà: vite scomparse, non era un gioco, non era l’ultima puntata di “Games of Thrones”.

I vostri progetti futuri?
Sono tanti. Ma ci piacerebbe sviluppare questo progetto ulteriormente, magari con un terzo episodio che approfondisca la parte investigativa. Il film ora finisce con un ventaglio di possibilità e di possibili sviluppi. A partire da quello che abbiamo, vogliamo continuare a raccontare questa storia. Non finisce qui.

 

di Francesco Rossetti

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