Il “Messaggio alla città” del Vescovo Erio Castellucci dal titolo “Seminatori di speranza”

La speranza non è solo l’ultima a morire, come dice il proverbio, ma è soprattutto la prima e fondamentale spinta a vivere. Una persona senza speranza si lascia spegnere o al massimo si rassegna a sopravvivere. «L’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze, più piccole o più grandi», scriveva papa Benedetto XVI (Enc. Spe Salvi, 2007, n. 30). La speranza più grande di tutte si gioca di fronte alla morte. Davanti al maggiore degli enigmi l’apostolo Paolo raccomanda di rimanere «saldi nella speranza della gloria di Dio» (Rom 5,2), mentre il poeta pensa al contrario che «anche la Speme, ultima dea, fugge i sepolcri» (Foscolo, I Sepolcri, 16-17).

Noi mettiamo però in gioco la speranza non solo di fronte all’orizzonte finale dell’esistenza, ma anche nelle piccole scelte di ogni giorno. Investiamo dosi di speranza in ogni nostra azione, in ciascuna decisione quotidiana. Quando attiviamo il pensiero, quando curiamo le relazioni, quando spendiamo energie nel lavoro, nello studio, nello svago, nella cura, noi mettiamo in campo delle piccole speranze. L’uomo vive in quanto progetta, cioè letteralmente “getta avanti” a sé, si dà degli obiettivi, tende verso una mèta, grande o piccola che sia. Viceversa, muore interiormente, anche quando sopravvive fisicamente, se non scorge più dei traguardi davanti a sé: allora si sente inutile e si lascia andare.

La singola persona vive dentro ad una rete di rapporti che è la comunità. Le speranze degli individui si travasano nella comunità e le speranze che sostengono una comunità influenzano gli individui. Esiste un’osmosi della speranza tra singoli e società. Per questo si parla anche di speranza sociale, intendendo la passione con cui una comunità “getta avanti” a sé lo sguardo, si dà degli obiettivi, si muove su orizzonti di futuro. Il termometro della speranza sociale è dunque la progettualità: là dove prevalgono lamento, nostalgia e rimpianto del passato, il grado di speranza sociale è basso; è alto, al contrario, là dove si diffondono spirito d’iniziativa, capacità di sognare e fiducia nel futuro.

 

Uno degli indicatori della speranza sociale è la questione demografica. La parola “questione” si abbina solitamente nel dibattito pubblico a termini come morale, ecologica, sociale e così via: ciascuna di queste espressioni ha una propria storia e richiama svariate problematiche. La questione demografica, fino a qualche decennio fa, veniva evocata in ambito internazionale per segnalare il problema della sovrappopolazione mondiale, ossia l’aumento, ritenuto eccessivo, del numero degli abitanti del pianeta specialmente nel Sud del mondo e in Cina. Ma da qualche tempo l’espressione segnala un problema opposto, soprattutto nel Sud Europa e nell’Oriente estremo: la decrescita della popolazione, ossia la differenza negativa tra i morti e i nati nell’arco di un anno. In Italia questa forbice è diventata così ampia da destare serie preoccupazioni per l’immediato futuro: negli ultimi anni lo sbilancio tra nati e morti è di circa 190.000 persone all’anno. Per trovare un saldo più negativo di questo dobbiamo andare indietro di un secolo: questa forbice venne infatti superata solo nel 1917 in ragione della guerra e nel 1918 a causa dell’epidemia “spagnola”.

Non è certo necessario dimostrare la correlazione tra il cosiddetto tasso di natalità di un paese – cioè la proporzione tra il numero di nuovi nati e la popolazione complessiva – e la capacità di progettare il futuro. In una società che invecchia prevale facilmente la nostalgia sulla fiducia, il lamento sul sogno, il rimpianto sulla novità. Nella storia italiana e anche nella nostra storia locale vi sono stati altri periodi di decadenza. Ai tempi di San Geminiano, ad esempio, la città di Modena e le altre collocate sulla via Emilia da Piacenza a Bologna vennero definite pesantemente dal vescovo di Milano Sant’Ambrogio «cadaveri di città semidistrutte» (Epist. 39,3). Grazie a Dio, oltre che all’opera di tante generazioni di donne e uomini, ben presto quelle città risorsero, nacquero poi i Comuni e prese piede lo sviluppo che ha portato lungo i secoli e fino ad oggi alla costruzione di città fiorenti, con un alto senso civico e uno spirito di collaborazione e iniziativa molto radicati ed apprezzati. Permangono tuttavia delle ombre, la cui spia è proprio la bassa natalità, che denota scarsa fiducia nel futuro.

 

Negli anni Sessanta del secolo scorso le nascite in Italia superavano annualmente il milione, come del resto era avvenuto nel secolo precedente, esclusi gli anni delle due guerre mondiali. Ma da mezzo secolo a questa parte il calo è stato progressivo, fino a scendere sotto il mezzo milione nel 2015 e abbassarsi a poco più di 450.000 nel 2017. Se la tendenza non cambia, questo autunno demografico condurrà l’Italia verso un vero e proprio inverno. I dati relativi possono dare un’idea ancora più realistica rispetto a quelli assoluti: negli anni Sessanta la popolazione italiana era formata da poco più di 50 milioni di abitanti e quindi il tasso di natalità era del 20 per mille; attualmente ha superato i 60 milioni di abitanti e quindi il tasso di natalità si aggira attorno all’8 per mille. In Italia ogni donna genera mediamente 1,3 figli, mentre la quota richiesta per il ricambio è di 2,1. Siamo uno dei paesi meno fecondi al mondo, in compagnia di spagnoli, portoghesi, greci, giapponesi, sud-coreani e cinesi

A buon diritto dunque gli studiosi parlano di invecchiamento dell’Italia; quelli più raffinati hanno coniato il neologismo degiovanimento. Questa tendenza contiene anche un elemento apprezzabile: l’aumento dell’età media degli italiani. Grazie alle migliori condizioni generali di vita, allo sviluppo della medicina e della tecnologia e ad un sistema sanitario complessivamente funzionante, si vive più a lungo, per quanto gli anni guadagnati in quantità non lo siano sempre in qualità. Una ventina di anni fa gli ultraottantenni erano poco meno di 2,3 milioni; oggi sono esattamente il doppio e con questa tendenza nel 2040 saranno quasi il triplo. Ed è certamente un progresso. Oltretutto l’aumento dell’età media permette oggi a molti pensionati di vivere bene ed essere attivi anche a beneficio delle famiglie dei loro figli. È preziosissima l’opera di tanti nonni e nonne che, prendendosi cura dei nipoti, sostengono efficacemente i loro figli adulti e creano un importante ponte generazionale. Il problema è piuttosto la notevole e crescente contrazione della popolazione attiva. Se vent’anni fa nel nostro paese c’erano ancora cinque adulti per ogni anziano, oggi ce ne sono quattro e nel 2040 ne rimarranno due e mezzo. Con quali problemi per l’economia è facile immaginare: riduzione della produttività, diminuzione della capacità di impresa e innovazione, aumento delle fragilità legate all’anzianità e alla vecchiaia, tra cui soprattutto le patologie psichiche degenerative.

La proporzione tra giovani e anziani in un paese è stata paragonata a una piramide, che è solida quando possiede una buona e larga base e poi sale, riducendosi, fino ad una punta anche molto elevata. La base della piramide è formata dai bambini, ragazzi e giovani; il corpo centrale dagli adulti e la punta dagli anziani, le cui fila a poco a poco, come è normale, si assottigliano. Noi da qualche anno assomigliano ad una trottola, ma stiamo andando verso una sorta di piramide rovesciata, come quella che si trova all’ingresso del Museo del Louvre a Parigi. Forse anche per questo motivo i giovani si sentono smarriti e scarsamente propensi a “pro-gettare” il loro futuro da adulti. E la generazione di mezzo, chiamata efficacemente generazione sandwich, si sente appunto schiacciata tra due doveri sacrosanti: da una parte sostenere i genitori non più autosufficienti, curandoli e assicurando l’assistenza; e dall’altra mantenere i figli non ancora autosufficienti, accompagnandoli nel complesso compito di entrare nella vita adulta.

 

Se l’invecchiamento in Italia è un dato di fatto, l’interpretazione del dato, le cause del fenomeno e le proiezioni sono invece oggetto di discussione. A questo dibattito provo a dare un piccolo contributo, proseguendo nella tradizione della Lettera alla città, perché mi sembra un argomento di primaria importanza anche per la nostra società civile ed ecclesiale modenese: ciò senza pretendere alcuna completezza e originalità, ma solo per tenere desta l’attenzione al futuro, pensando in particolare a bambini, ragazzi e giovani.

Le cause sono innumerevoli, complesse e difficili da districare. Non convincono le analisi troppo rapide, sigillate da ricette infallibili, come se fosse facile leggere il fenomeno e ancora più facile trovare la soluzione. Certamente hanno ragione coloro che riconducono la denatalità ad alcune difficoltà della situazione economica italiana: la disoccupazione giovanile ancora mediamente elevata; le condizioni lavorative talvolta precarie; la scarsità dei servizi di supporto alle famiglie; l’alto costo dei figli anche per gli standards attualmente richiesti; la crisi economica dell’ultimo decennio e così via. Hanno sicuramente ragione anche coloro che individuano cause più profonde, di natura culturale, intrecciate in vario modo alle precedenti: la crescente instabilità dei legami affettivi, il cui indice rilevabile è l’aumento costante di separazioni, divorzi e convivenze; la separazione della sessualità dalla fecondità; i figli rinviati o quelli concepiti ma non accolti e così via. Se le cause sono queste, e senza dubbio molte altre, deve sentirsi interpellato non solo il mondo politico, ma anche il poliedrico mondo dell’educazione, comprese le comunità cristiane.

 

Ormai da tempo gli esperti segnalano la situazione a chiunque possa intervenire, partendo dai politici e dai governanti. Alcuni dei quali sembrano tuttavia soffrire di una certa sordità sull’argomento. Esiste, è vero, un problema oggettivo legato al sistema democratico: la questione demografica si gioca su tempi lunghi, mentre l’intervallo tra una legislatura e l’altra è molto breve, e ancor più ridotto è l’intervallo tra una votazione e l’altra. Le maggioranze inoltre mutano con una certa rapidità e talvolta i nuovi governanti, sulla base dei programmi elettorali per i quali hanno raccolto consensi, si danno come obiettivo primario quello di smantellare le riforme dei governi precedenti. Questa provvisorietà rende difficile impostare politiche di ampio respiro, che rischierebbero inevitabilmente l’impopolarità e quindi la riduzione del consenso elettorale. La politica non sembra ritagliata sulle grandi speranze, ma su quelle di corto raggio. Di qui la frequente adozione di provvedimenti-tampone anziché misure strutturali ad ampio respiro. Di fatto le politiche economiche nazionali, dagli anni Sessanta ad oggi ispirate al Welfare, hanno favorito piuttosto i singoli rispetto alle famiglie. Pare proprio che manchi un Welfare italiano a misura di famiglie, sebbene ormai il sistema di assistenza individualistico mostri la sua insostenibilità.

Le amministrazioni locali, immerse nel territorio e nei problemi quotidiani dei cittadini, segnalano da molti anni l’insufficienza del sistema, cercando di gestire al meglio le sempre più scarse risorse: ma sembra che persista lo scollamento tra le politiche locali, generalmente più aperte alla promozione dei corpi intermedi – il primo dei quali è la famiglia – e le politiche nazionali, maggiormente propense ad andare incontro direttamente ai singoli cittadini. I sindaci e gli amministratori locali, in altre parole, essendo a diretto contatto con realtà vive e operanti, sono maggiormente propensi a valorizzarle, coniugando la solidarietà con la sussidiarietà.

Le politiche sociali più efficaci passano attraverso il sostegno alla natalità e quindi dovrebbero essere soprattutto politiche familiari. Troppe volte in questi ultimi decenni abbiamo sentito proclamare i “valori della famiglia” in modo astratto e retorico, senza un adeguato appoggio economico alla famiglia, come se questi valori si promuovessero da soli o fossero veicolati semplicemente da un’alta tensione etica. I paesi occidentali che hanno effettivamente sostenuto la famiglia con politiche sociali incisive e concrete a tutela della genitorialità, destinandovi risorse percentualmente maggiori e persino doppie o triple rispetto a quelle italiane, sono riusciti a frenare l’inverno demografico. Le piste sono tracciate da tempo, come dimostrano le esperienze positive di questi paesi: ingresso più celere dei giovani nel mercato del lavoro che riduca l’arco della scolarizzazione e l’età media del primo impiego; maggiori incentivi alla professionalità femminile che non costringa la donna a scegliere tra lavoro e maternità; la riduzione del costo dei figli attraverso il quoziente familiare, gli incentivi fiscali e la disponibilità di servizi per l’infanzia a costo accessibile e ragionevole; le agevolazioni alle coppie che si impegnano a costituire una famiglia anche per l’accesso alla prima casa. Sono politiche per le quali ovviamente servono risorse, il cui impiego verrebbe però abbondantemente compensato, anche dal punto di vista economico.

Una gestione equilibrata e lungimirante del fenomeno migratorio può pure concorrere a migliorare la situazione. Una saggia politica di regolazione dei flussi migratori evita infatti di alimentare le paure e di evocare lo spettro dell’invasione e cerca piuttosto di promuovere l’inclusione sociale degli immigrati, che favorisce la crescita economica in Italia, come dimostrano le statistiche. È chiaro comunque che i migranti non possono essere visti come “la soluzione” del problema demografico. Prima di tutto perché gli arrivi in Italia sono drasticamente diminuiti nel 2018 rispetto agli anni immediatamente precedenti: poco più di 23.000, quasi 100.000 in meno rispetto al 2017 e quasi 160.000 in meno rispetto al 2016. Una volta integrati in Italia, del resto, gli immigrati tendono ad imitare il comportamento dei nativi anche per quanto riguarda il numero dei figli. A proposito di migrazioni, infine, è bene ricordare anche il flusso in uscita: si mantiene infatti costante l’emigrazione annua “definitiva” verso l’estero di oltre 100.000 italiani, una parte consistente dei quali sono giovani in cerca di impiego. Ciò significa che si corre il rischio di lasciare uscire dall’Italia maggiori potenzialità di quante se ne lascino entrare.

Quelli appena delineati non sono ovviamente obiettivi semplici e di corto raggio. Sono però obiettivi gradualmente perseguibili, a patto di impostare le scelte pensando alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni. Qualcuno dovrà pur rischiare una certa impopolarità nel presente per garantire un mondo migliore nel futuro.

 

Concludo accennando al contributo che le comunità cristiane possono offrire, insieme a tutti coloro che hanno a cuore il bene comune. Chi si aspetta a questo punto un semplice richiamo al “crescete e moltiplicatevi” della Genesi (1,28; 9,1) rimarrà deluso. Non perché non creda all’importanza fondamentale di questo comando divino, che resta oltretutto essenziale per la sopravvivenza della specie umana, benché spesso citato in modo ironico. E nemmeno perché questo comando biblico mi potrebbe essere personalmente ritorto contro, con un bel “medico cura te stesso” (Lc 4,23), oppure “da che pulpito vien la predica”, dato che non ho contribuito direttamente all’aumento del tasso di natalità e neppure ho intenzione di farlo. Ma perché, piuttosto, credo che la Chiesa sia oggi chiamata a coniugare quel “crescete e moltiplicatevi” non solo in termini di esortazione diretta alla coppia, ma in termini di educazione dei giovani e di messaggio “politico”.

I giovani manifestano ancora il desiderio di realizzare una famiglia. Lo dicono le statistiche; lo sa chiunque li incontri e li ascolti; lo ha riaffermato il recente Sinodo celebrato da papa Francesco per e con i giovani: «La famiglia continua a rappresentare il principale punto di riferimento per i giovani. I figli apprezzano l’amore e la cura da parte dei genitori, hanno a cuore i legami familiari e sperano di riuscire a formare a loro volta una famiglia» (Documento finale, 2018, n. 32). Il loro è un desiderio timoroso, certo, perché vedono l’instabilità della società adulta; ma è un sogno presente e ricorrente. È dunque la formazione delle nuove generazioni a rappresentare il vasto terreno su cui anche le comunità cristiane stanno lavorando con generosità, in rete con le altre realtà educanti: famiglia, scuola, lavoro, sport, cultura, volontariato. L’educazione all’amore, agli affetti, alla corporeità e alla sessualità come “dono di sé”; le catechesi sul matrimonio come vocazione; le testimonianze di accoglienza, come quelle che offrono i Centri di Aiuto alla Vita, le Case-famiglia o le esperienze coordinate dalla Caritas, sono formative e incoraggianti per i ragazzi e i giovani.

In questo modo la Chiesa contribuisce a seminare speranza: dentro la grande e fondamentale speranza della vita oltre la morte, anche le piccole e quotidiane speranze che sostengono la vita terrena. Insieme alle diverse forme democratiche di pressione sul mondo politico per una maggiore attenzione alla famiglia, è questa grande opera educativa che potrà in tempi lunghi invertire la tendenza attuale in Italia, perché l’inverno demografico lasci gradualmente il campo alla primavera.

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