“L’ha uccisa perché era stato lasciato”: l’intervista alla giurista e criminologa Maria Dell’Anno

Maria Dell’Anno è giurista, criminologa e soprattutto scrittrice. Da alcuni anni studia e scrive sulla violenza maschile contro le donne. Il suo saggio “Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio” è stato presentato alla Casa delle Donne, nell’ambito delle iniziative promosse da Comune e Associazioni, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne del 25 novembre.

Da dove nasce il suo impegno sul tema della violenza contro le donne?
Ho sempre avuto uno spirito femminista e mi è sempre piaciuto il principio di uguaglianza, ma ho iniziato a studiare compiutamente la violenza di genere nel contesto di un master in criminologia. Mi sono formata presso due centri anti-violenza dove ho conosciuto donne meravigliose. Quell’esperienza mi ha consentito di indossare quelle che la giudice Paola Di Nicola Travaglini chiama le “lenti di genere”, per leggere la realtà alla luce delle millenarie discriminazioni che noi donne abbiamo subito. Da quell’esperienza è nato il mio primo saggio “Se questo è amore” e da allora non ho più abbandonato questa battaglia”.

“Parole e pregiudizi” analizza il linguaggio scelto dai giornali per narrare i casi di femminicidio, quale è l’ipotesi alla base?
I mass-media hanno una profonda influenza sul modo in cui i lettori/spettatori interpretano realtà ed eventi sociali. Chi utilizza la lingua e le parole ha un potere enorme: ogni parola porta con sé il bagaglio culturale di chi la usa, ma anche gli stereotipi e i pregiudizi sociali e culturali con cui cresciamo. L’ipotesi era verificare se la stampa italiana, sui casi di femminicidio, tenda a fornire un frame interpretativo che deresponsabilizza l’azione violenta dell’uomo, rappresentando il fatto come un delitto d’impeto, determinato da un discontrollo episodico e da un comportamento della donna che ha deluso le sue aspettative. La conseguenza è isolare l’evento senza coglierne la matrice culturale”.

Dai 26 casi presi in esame, che cosa emerge in merito al linguaggio?
L’analisi ha esaminato articoli pubblicati su quotidiani nazionali tra aprile 2019 e aprile 2020, relativi a casi di donne uccise da un uomo con cui avevano o avevano avuto una relazione intima. Emerge, purtroppo, che il femminicidio è rappresentato come azione di un uomo innamorato che, sopraffatto dagli eventi, perde la ragione a causa di un comportamento della donna. E’ rappresentato come fatto sporadico e incontrollabile o come inevitabile conclusione di una relazione violenta. La narrazione giornalistica lo priva del suo carattere strutturale: ogni femminicidio è isolato dall’altro, un fatto privato della coppia dove amore romantico e gelosia tendono a giustificare e deresponsabilizzare”.

Direttori e cronisti dei giornali sono per lo più uomini, questo incide sulle scelte?
Mentre scrivevo questo libro, tra i quotidiani italiani più diffusi c’erano solo due donne al vertice, Norma Rangeri del Manifesto e Agnese Pini della Nazione, ma in realtà il genere di chi scrive questi articoli non è determinante, perché condividiamo tutte e tutti la stessa cultura e gli stessi stereotipi”.

Quali indicazioni darebbe a chi si occupa di cronaca?
Il Manifesto di Venezia del 2017 dà indicazioni preziose. Occorre cambiare il punto di vista della narrazione: se il punto di vista diventa quello della donna che subisce violenza, cambierà il linguaggio, restituendo alla donna umanità e dignità. Raccontare la violenza dalla parte della donna significa descrivere il fatto di cronaca ma anche la realtà sociale. Invece di scrivere “l’ha uccisa perché era stato lasciato” o “perché il suo amore non era corrisposto”, bisognerebbe scrivere “l’ha uccisa perché non accettava la sua libertà, la sua autonomia, non concepiva che fosse libera di rifiutarlo”, “l’ha uccisa perché non la vedeva come persona ma come oggetto”. Invece di colpevolizzare la donna uccisa perché l’aveva o non l’aveva lasciato, perché non l’aveva denunciato, bisognerebbe imparare che l’unico da colpevolizzare è chi commette il crimine”.

Alla luce di questo lavoro, quale strada prendere ora?
La strada è una sola: la formazione. Il femminicidio ha una radice culturale, perciò la soluzione è nella cultura. Ogni professione che entra in contatto con la violenza di genere deve prendere coscienza della realtà sociale, essere consapevole che ogni parola produce conseguenze sul modo di percepire il problema. Non basta essere giornalisti per saper raccontare la cronaca dei femminicidi, perché non si tratta solo di cronaca”.

Il programma completo delle iniziative è sul sito del Comune di Modena.

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