Dischi: “Day Breaks”, il ritorno alle origini di Norah Jones

Norah Jones – “Day Breaks”

Nel mondo del music buisness contemporaneo, dominato da suoni finti e star prodotte in laboratorio, quello di Norah Jones è uno dei pochi, sorprendenti, casi in cui si coniugano successo commerciale e qualità artistica. Il suo primo album, “Come away with me” del 2002, con quel delicato pop-jazz in stile Blue Note, vendette oltre 25 milioni di copie in tutto il mondo e anche i lavori successivi, pur con alti e bassi, hanno confermato la popolarità e il talento di questa ragazza newyorkese, figlia d’arte (suo padre era Ravi Shankar, il maestro di sitar di George Harrison). Dopo un paio di dischi in cui ha cercato di inoltrarsi in un terreno di maggiore sperimentazione (“Little Broken Heart” del 2012, prodotto da Danger Mouse, il più interessante), la Jones torna alle origini, a quelle ballate pop-jazz soffuse e delicate che avevano reso grande il disco d’esordio, e questo “Day Breaks” è, forse, ancora più bello. Il suono è splendido, pulito e raffinato, e le 12 canzoni, un mix di brani originali e cover d’autore (c’è anche una fascinosa versione di “Don’t be denied” di Neil Young), vanno dall’iniziale e intimista “Burn”, alle sue tipiche ballate “Tragedy” e “Carry on”, fino al notturno jazz conclusivo “African Flower”, bellissima cover di un brano di Duke Ellington. Classe allo stato puro.

di Giovanni Botti

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