“I bambini ci guardano e ci disegnano”, intervista all’antropologo Simone Ghiaroni

Simone Ghiaroni insegna Discipline etnoantropologiche all’Università di Modena, all’Università di Bolzano e alla Sigmund Freud University di Milano. In “Il disegno selvaggio. Un’antropologia del grafismo infantile” (Meltemi ed, pagg. 247, 18 €), ha condensato il frutto di svariati anni di studio e ricerca sul campo. L’assunto è chiaro: un antropologo studia sul campo una strana tribù. Sono i bambini della scuola d’infanzia di Gorzano di Maranello (Mo) e hanno dai 3 ai 5 anni.

Professore, se possibile comincerei da qualche dato personale: come si diventa antropologi? Quando e ‘grazie a cosa’ è scoccata in lei la passione per questa branca di sapere?

L’antropologia riunisce le mie ossessioni principali: la scrittura, i viaggi e la scienza. Fin da bambino ero affascinato dai racconti di viaggio e d’avventura, soprattutto i libri di Verne, e dalla scienza. Poi ho avuto la fortuna di viaggiare molto fin da piccolo. Al secondo anno di università feci il mio primo esame di antropologia, con un pessimo docente, ma leggendo i testi me ne innamorai subito. Mi sembrò un modo per affrontare scientificamente, senza perdere la bellezza e il gusto del racconto, la meravigliosa diversità dell’avventura umana, tenendo ferma la fondamentale uguaglianza tra gli uomini e le donne di ogni latitudine ed epoca.

Da piccolo le piaceva disegnare? 

Scherzando, spesso dico che non so cantare, non so suonare, non so disegnare, ho i piedi a banana quindi ho dovuto iniziare a scrivere. Ma come tutti i bambini ho disegnato anche io e mi divertivo soprattutto come gioco con gli amici, una cosa che mi è rimasta in mente quando ho iniziato a osservare i disegni degli altri. Purtroppo, come spesso accade a chi non coltiva la pratica grafica, sono rimasto alle abilità che avevo da bambino.

Il suo interesse specifico rispetto al disegno infantile, quando è cominciato?

Durante il dottorato, quando dovevo scegliere un tema su cui fare ricerca e scrivere la tesi. Ricordo bene il momento. Non mi ero mai interessato ai mondi dell’infanzia, i miei temi di ricerca riguardavano la stregoneria in Africa occidentale, ma sfogliando un libro sulle pittografie di Carlo Severi, poi è diventato il mio maestro, quasi sovrappensiero mi son detto “sembrano disegni di un bambino…” Lì per lì, mi sembrò un pensiero stupido, ma mi chiesi cosa sarebbe successo usando delle teorie che prima di allora erano state mai utilizzate per leggere i disegni infantili. Ne ho parlato con Carlo, presentandogli un progetto, e lui mi ha incoraggiato a perseguire la mia idea di un’interpretazione pienamente antropologica di un tema solitamente psicologico.

Ora andiamo al libro: quando è nato il progetto e come ha preso forma?

Prende le mosse dalla ricerca condotta per il mio Dottorato di ricerca all’Istituto di Scienze Umane, ora Normale di Pisa. Basandomi sul testo della tesi, ho continuato le mie ricerche a Parigi, al Collège de France. Durante quegli anni ho aggiornato, limato, riscritto, ampliato, ma soprattutto tagliato parti del testo, fino a ottenere un testo che fosse indipendente, leggibile – spero – da tutto quello che una volta si chiamava “il pubblico colto”. Spesso mi riferisco al libro come al “romanzo di formazione di una linea”, perché ho scelto di presentare a mano a mano le teorie costruendole come fosse una narrazione, un manufatto, aggiungendo un pezzo alla volta, partendo da una semplice linea, uno scarabocchio, fino a un disegno finale “La storia della principessa innamorata” in cui rivediamo tutto ciò di cui si parla nel libro. Ogni nuovo “strato teorico” aggiunge particolari, per fornire al lettore una serie di strumenti per capirne di più, ma anche un viaggio in una splendida storia.

Lei parla di ‘antropologia con i bambini’ e non sui bambini. Mi ricorda la stessa distinzione che esiste fra filosofia con i bambini e la philosophy for children, di matrice anglosassone. Come si pone lo studioso rispetto ai piccoli? Quale ruolo giocano la fiducia e l’empatia in questo rapporto? 

L’antropologo è un essere umano che si occupa di altri esseri umani. Siamo invischiati nella stessa materia dei nostri “oggetti” di ricerca. Per questo non è possibile pensare siano veri e propri oggetti da studiare, non è come un geologo può studiare una roccia. I nostri interlocutori sul campo hanno idee, sentimenti, intenzioni di cui dobbiamo tener conto. Producono i loro proprio significati, visioni del mondo che per noi ricercatori sono fondamentali. E l’unico modo per venirne a conoscenza è instaurare un dialogo, trattandoli appunto come persone capaci di pensiero, non come oggetti inerti. Per questo è necessario che ci siano i presupposti per uno scambio sincero. Il fatto che i miei interlocutori fossero persone tra i 3 e i 5 anni non cambia questo, le interpretazioni nascono sempre dall’interazione e non nelle astrazioni di uno studioso perso nella sua biblioteca. Senza l’aiuto i miei piccoli indigeni non sarei mai arrivato alle mie teorie sul disegno. Per questo le ricerche antropologiche si fanno “con” e non “su” qualcuno.

Disegno e gioco: il bambino ha sempre un approccio ludico al disegno?

Le dirò di più, i bambini hanno un approccio ludico a tutto, se non ci si immischiano troppo gli adulti con le loro regole. Il comportamento ludico, il gioco, è una enorme fonte di apprendimento, di sperimentazione, di crescita. Attraverso il gioco si imparano tante cose serie, per questo il gioco è un affare serissimo e dovremmo prendere spunto anche noi adulti per non smettere mai di giocare. Il disegno è uno dei tanti giochi attraverso i quali possono esplorare il mondo, smontarlo a pezzetti e ricostruirlo nei loro disegni. Aprirlo, guardare com’è fatto, sperimentare, che è il modo migliore per capire qualcosa.

Disegno e dono: lei scrive che disegnare è anche un modo per creare relazioni. Cioè?

Ogni disegno contenuto nel libro mi è stato donato o “prestato” direttamente dal bambino che l’ha disegnato. Questo è un punto centrale proprio perché donare un disegno significa donare un po’ di sé, creare o sottolineare una relazione tra il donatore e il ricevente. I bambini, come molti adulti, usano inconsciamente ma costantemente queste dinamiche di doni. Da quelli più evidenti a piccoli gesti quotidiani. Il bambino dona il proprio disegno solo a persone con cui ha relazioni di affetto e si adombra se arriva nelle mani di qualcuno con cui invece non c’è relazione o con cui “si è litigato”. Allo stesso modo, il dono può aiutare a creare queste relazioni. Questa interpretazione è debitrice di un grande classico dell’antropologia, un testo degli anni venti del Novecento di Marcel Mauss, il Saggio sul dono.

Disegno e arte: non c’è il rischio di idolatrare il bambino, considerarlo un talento espressivo, quando invece i suoi sono meri scarabocchi?

È proprio così. Trattando il disegno infantile si deve cercare di rimanere lontani dal primitivismo e da quel “culto del bambino” che lo vede portatore di una creatività innata. Già il grande psicologo Vygotskij diceva che gli adulti sono molto più creativi, proprio perché hanno più esperienza del mondo da ricombinare in modi nuovi. I bambini hanno meno paura di provare, di errare, di giocare con il mondo facendolo a pezzi, se mi si consente la citazione. Ogni tentativo di comprensione non può partire da una posizione ideologica, di parte. Per quanto mi riguarda, non mi ero mai occupato (e tuttora non lo faccio) di antropologia dell’infanzia, in quanto proprio non affascinato da quel mondo, il fatto che i miei “indigeni” siano bambini per me è puramente accidentale, i modi della mia ricerca sono gli stessi che utilizzavo in Africa. Solamente, qualche volta, ho dovuto chinarmi.

La sua ricerca si è sviluppata in una scuola dell’infanzia del modenese, legata agli insegnamenti del pedagogista Loris Malaguzzi. Come valuta oggi l’influenza del Reggio Emilia Approach sul sistema educativo emiliano?

Le intuizioni di Malaguzzi sono ancora attualissime e fondamentali. L’attenzione posta alla possibilità di autoespressione creativa del bambino come fonte di apprendimento, sviluppo e socializzazione stanno ricevendo da anni conferme da tutte le ricerche neurocognitive e antropologiche. Francamente non so se sarebbe stato possibile compiere una ricerca come la mia in istituti non ispirati da queste idee. Forse sarei giunto alle medesime conclusioni, che io ritengo generalizzabili a tutti (non solo bambini, tutti!), ma con molta più fatica e molto meno divertimento.

Si celebrano i cento anni dalla nascita di Gianni Rodari: in fondo fu anche lui un antropologo?

Rodari fu molto più di un antropologo, fu un grande scrittore. Ritengo la sua “Grammatica della fantasia” un testo fondamentale, a prima vista semplice, in realtà densissimo. Rodari aveva una sua visione del mondo, come ogni creativo inventava mondi possibili, e aveva anche la straordinaria capacità di riuscire a raccontarli ai più piccoli, il genere letterario più difficile da scrivere. Rodari è uno dei grandi italiani del Novecento che non dobbiamo mai dimenticare e di cui possiamo andare legittimamente molto fieri.

In chiusura, è inevitabile un richiamo all’attualità. La pandemia da Covid19 e la chiusura delle scuole nei mesi della scorsa primavera: quali ripercussioni sulla crescita, anche espressiva, dei bambini piccoli?

Quante pagine ho a disposizione? Scherzi a parte. Il tema è complesso, enorme e spinoso. Troppo spesso pensiamo alle scuole come a dei luoghi in cui si “trasferiscono” conoscenze, come si scaricano file su un computer. Ma le scuole sono molto di più, sono luoghi in cui non solo si impara, ma si formano persone, esseri umani.  Mi sento solo di dire una cosa che noi antropologi sappiamo bene: homo sapiens è un animale che vive soprattutto di relazioni con gli altri. Il grande vantaggio evolutivo sugli altri animali è esploso quando abbiamo iniziato come specie a collaborare, a condividere, a imparare gli uni dagli altri, imitandoci e espandendo le nostre potenzialità intellettive. Gli amici, il contatto fisico, la condivisione delle esperienze non sono opzionali, non sono solo svago, sono l’asse portante dell’evoluzione culturale e personale dell’individuo. Soprattutto, ma non solo, per i bambini. Una volta sollevate le limitazioni imposte dalla pandemia, occorrerà prestare molta attenzione alla ricostruzione di reti sociali, alla promozione di occasioni di socialità lontana dagli schermi di smartphone e Playstation, perché è all’interno di queste possibilità che si sviluppa pienamente un essere umano. Non possiamo pensare che vada tutto a posto da solo, perché purtroppo non va sempre “tutto bene”, mesi e mesi sono un tempo sufficiente a formare abitudini e perderne altre, dobbiamo agire attivamente. Ma da più di un centinaio di migliaia di anni i sapiens hanno sempre ricostruito le proprie società, basandosi su relazioni a faccia a faccia, su comunità autentiche. Lo rifaremo.

di Francesco Rossetti

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