Il disco della settimana: “Rough and Rowdy Ways”, il ritorno di Bob Dylan

Bob Dylan – “Rough and Rowdy Ways”

Ancora una volta Bob Dylan è riuscito a sorprendere tutti. Quando ormai lo si pensava interessato esclusivamente alla sua personale versione del crooner e alla riproposizione di brani più o meno noti di Sinatra e affini (i tre album consecutivi realizzati dal 2015 al 2017 di cui l’ultimo “Triplicate” addirittura triplo), il grande cantautore americano, in piena pandemia, ha improvvisamente diffuso sulle piattaforme digitali una nuova canzone, “Murder Most Foul”. Una vera e propria narrazione in musica di quasi 17 minuti incentrata sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, raccontato con una serie interminabile di citazioni. Sembrava potesse essere un episodio isolato legato al periodo, ma quando Dylan ha reso note due altre canzoni, prima la deliziosa e rarefatta ballata “I Contain Multitudes” poi il rock-blues grintoso “False Prophet”, si è capito che un nuovo album di inediti era imminente. E in effetti è arrivato “Rough and Rowdy Ways”, la prima raccolta di nuove composizioni che il musicista, premio Nobel per la letteratura nel 2016, mette sul mercato dai tempi di “Tempest” (2012).

Rispetto al suo predecessore, un album discreto ma non di più nonostante al momento della sua uscita fosse stato salutato come un capolavoro, il nuovo disco è decisamente superiore. La fascinazione di Bob Dylan per le atmosfere notturne e rarefatte con qualche spruzzata di jazz che hanno caratterizzato il suo periodo da crooner è ancora evidente, ma queste sonorità invece che appesantirle, finiscono per arricchire di fascino alcune canzoni di per se già bellissime. Su tutte la dolce e lentissima “Mother of Muses”, che ricorda anche il Tom Waits più notturno e da club, e soprattutto la lunga (quasi 10 minuti) “Key west (Philosopher pirate)”, meravigliosa ballata con chitarra, fisarmonica e una batteria appena accennata in cui il cantautore immagina un viaggio verso Key West assieme ai suoi miti letterari, Jack Kerouac e Allen Ginsberg.

Non mancano, naturalmente i pezzi blues come il già citato “False Prophet”, il bluesaccio limaccioso alla John Lee Hooker “Crossing the Rubicon” e “Goodbye Jimmy Reed”, tributo a uno dei pionieri del Mississippi sound, probabilmente il pezzo più vibrante del disco. L’album più bello di Dylan dai tempi di “Time Out of Mind”, speriamo che ce ne siano altri.

(di Giovanni Botti)

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