Il “Prigioniero degli Altipiani”: l’intervista allo scrittore Roberto Franchini

Umberto, partito volontario nel 1935 per partecipare alla guerra coloniale in Eritrea, era stato fatto prigioniero allo scoppio della guerra “vera” contro l’Inghilterra. Dopo 12 anni di prigionia, nei quali resta all’oscuro di quanto succede in Europa e in Italia, ritorna a casa dall’amata Maria. E nel raccontare al figlio quello che gli è successo, rivive l’esaltazione della fuga, le ingiustizie subite, il senso di impotenza, ma anche la bellezza di quelle terre e torna a chiedersi perchè gli inglesi ci abbiano messo tanto a liberarli. E’ questa la trama di “Prigioniero degli Altipiani”, il secondo romanzo di Roberto Franchini, edito da La Nave di Teseo. “Il nucleo del libro – racconta Franchini – viene da un’esperienza vera, da un brogliaccio che mi consegnò 40 anni fa un parente di mia moglie, una guardia forestale sull’altipiano di Asiago, che nel ‘35, spinto dall’adesione all’ideologia fascista, andò volontario in Africa per la guerra coloniale, tornando a casa agli inizi del ‘47. Mi colpì molto il fatto che avesse voluto dare proprio a me, che ai tempi ero un giornalista dell’Unità, questo racconto della sua vita, una vita complicata, che lo aveva portato da giovane lontano da casa e poi alla caduta di quegli ideali che lo avevano convinto a partecipare alla guerra in Africa. Su questo nucleo ho innestato un racconto vero e proprio, con molte parti di fantasia, seppur aderenti al tempo”.

Anche la storia d’amore è una storia vera?
“No, diciamo che gran parte del racconto è inventata e anche la storia della moglie che lo aspetta a casa non è aderente alla realtà. Lui aveva effettivamente una moglie e un figlio, ma il figlio, che io evoco senza mai farlo comparire, nel romanzo è soprattutto il simbolo di una generazione che, spesso, non ha conosciuto i padri perchè, o erano morti in guerra o erano rimasti via a lungo. Rappresenta un’Italia nuova, quella della democrazia con la quale i padri comunque dovevano fare i conti”.

Una storia che può sembrare lontana, ma che molti di noi hanno sentito nei racconti dei nonni…
“E’ vero, parecchie persone hanno avuto parenti che hanno combattuto in Africa, ma anche nella terribile campagna di Russia o in quella di Grecia e Albania, e che sono stati fatti prigionieri. Nel Corno d’Africa, dove è stato prigioniero il protagonista del romanzo, c’erano i campi di prigionia degli inglesi. La guerra finisce nel 1945, ma sembra che gli accordi di pace quasi si dimentichino dei prigioneri, tant’è vero che molti di loro tornano a casa nel ‘47. Questo non per incapacità degli inglesi, ma perchè ci fù una sorta di periodo grigio, di parentesi intermedia in cui nessuno sapeva bene cosa fare”.

Pensi che un romanzo come questo possa avere anche qualcosa di attuale?
“Beh, intanto può essere utile per riscoprire una parte di storia importante. E poi, in fondo, il libro parla della necessità di fare i conti con le proprie scelte, anche quando queste scelte si rivelano sbagliate e hanno portato a sconfitte pesanti. Inizialmente il titolo avrebbe dovuto essere “Le retrovie di una sconfitta”, proprio perchè mi interessava raccontare la storia di persone sconfitte, che non avevano ruoli di primo piano”.

Il romanzo riporta in primo piano una vicenda come il colonialismo che ha tutt’ora importanti conseguenze…
“Si, diciamo che la storia coloniale non è mai finita, ma ha avuto aggiornamenti. La presenza cinese in Africa, a mio modo di vedere, è uno di questi, è una storia prettamente coloniale. Negli anni ‘50, ai tempi dei paesi non allineati, l’uscita dal colonialismo sembrava abbastanza semplice, ma le cose, alla fine, non sono andate come si sperava”.

Tu hai sempre scritto libri di saggistica, ma nell’ultimo anno hai pubblicato ben due romanzi. Cosa ti ha portato a questo cambiamento?
“A un certo punto nella vita bisogna pur diventare grandi, quindi il romanzo era una prova a cui sottoporsi. E poi anche i miei saggi, ad esempio quello sull’orso o quello su Modena vista da viaggiatori e scrittori, erano frutto di una lunga ricerca, ma avevano dentro un’idea, un’ipotesi, un inizio e una fine, ed erano un tentativo di raccontare con un linguaggio non accademico”.

A livello stilistico ti ispiri a qualcuno in particolare?
“Sicuramente ho tenuto presente, senza però imitarlo, lo scrittore dell’altopiano di Asiago Mario Rigoni Stern, che ha parlato della campagna di Russia in un libro diventato famoso. E poi mi accorgo, dopo averli scritti, di avere nei due romanzi una impostazione cinematografica, cioè di usare delle scene progressive che si concatenano, ovviamente con rimandi avanti e indietro. Forse il cinema ha avuto su di me più influenza di quanto non sia disposto ad ammettere”.

Hai in programma qualche presentazione?
“Ti posso dire che il 25 marzo andrò a Bruxelles, alla Piola, una libreria italiana con cucina gestita da un modenese che si chiama Iacopo Panizza, a presentare il libro assieme allo scrittore Diego Marani e a Stefano Manservizi, ex capo di gabinetto di Prodi e della Mogherini, ma soprattutto esperto di Africa. Un’occasione per rivedere amici che vivono lì e riparlare di una vicenda, come abbiamo già detto, mai veramente chiusa”.

 

di Giovanni Botti

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