L’istinto di uno chef: l’intervista a Stefano Corghi, de “Il Luppolo e L’Uva”

Sorprendente trovare un ristorante di estreme qualità e raffinatezza in una zona di capannoni. Accade in via Staffette Partigiane 31, a Modena, con “Il Luppolo e L’Uva”, gestito dallo chef Stefano Corghi (nella foto), anche presidente del consorzio di ristoratori “Modena a Tavola”.

Del resto a Corghi piace sorprendere, lasciare un segno: il suo percorso professionale parla in tal senso. “Ho cominciato nel 1996 a Castelfranco Emilia con l’Old Distillery, un pub che ho gestito per quindici anni, facendolo crescere sotto il profilo della qualità gastronomica, finendo perfino nella guida Michelin. Nel 2011 sono approdato al Luppolo e l’Uva (la vita mi ci ha portato). Era un bar ristorante e io l’ho trasformato, puntando fortemente sulle materie prime e sulla mia fantasia. Proponiamo tre menu: uno si chiama Ricordi e porta avanti la tradizione; l’altro è Istinto, e forse è quello che esprime in modo più profondo il mio tipo di cucina”.

In che senso? E’ un istintivo?
“Perché in effetti io mi applico alla cucina come un musicista. E improvviso. Improvvisare in qualche campo, può sembrare un termine negativo, ma non lo è per la musica. Un musicista improvvisa su una base di grande conoscenza, su una tecnica. Improvvisando fa uscire e trasmette quello che ha al suo interno. Così fa uno chef. Cucinare per me è un modo per fare uscire il mio stato d’animo”.

Parlava di tre menù: il terzo qual è?
“C’è un ulteriore crossover che defininiamo Hamburger Gourmet. Mi piace praticare una cucina ‘circolare’. L’hamburger mi dà la possibilità di lavorare con carni pregiate che mi arrivano da un allevamento dell’alto Appennino”.

Lei è di Cesena, giusto? La sua biografia unisce l’Emilia alla Romagna.
“In sì realtà sono nato a Cesena, ma mio papà era modenese doc, come mia mamma che però aveva anche un tocco di Francia. Sono un figlio di emiliani, nato e cresciuto in Romagna. E sì, se la cucina è legata all’istinto, come credo, allora c’è senz’altro un tocco di Romagna nella mia cucina”.

Il turista che viene a Modena si aspetta di mangiar bene e questo costringe tutti i ristoratori a tenere alta l’asticella della qualità. E’ così?
“Penso che noi abbiamo una grande fortuna, di essere ambasciatori di un territorio così ricco di tesori: culturali, naturali, gastronomici, ma a livello di humus umano. Disponiamo di materie prime con una qualità che fa la differenza, e che possiamo trasformare in piatti, secondo il nostro estro e la nostra conoscenza. Nello stesso tempo abbiamo anche il peso di rappresentare una delle cucine più importanti d’Italia, e di conseguenza del mondo. Quindi sì, è giusto che il buongustaio si aspetti molto da tutti noi”.

Lei presiede “Modena a Tavola”: quanto è necessario fare rete?
“Moltissimo. Credo molto nello spirito di collaborazione fra noi. Sebbene il ristoratore nasca come una persona che ha un’idea precisa e possibilmente vuole controllare da solo ciò che offre, cementare una buona coesione, fare squadra fa bene a tutti, e ci permette di crescere. Si cresce insieme, anche nel nostro settore. Da soli, in questo momento, non si andrebbe lontano”.

E’ uscita una Lonely Planet dedicata all’Emilia-Romagna che ha segnalato solo qualche locale. Chi è rimasto fuori può aver provato invidia?
“No, invidia no, magari qualcuno può esser rimasto dispiaciuto, ma è normale che abbiano limitato le indicazioni”

Oggi fare il cuoco è uno dei mestieri più mediatici. Conta più saper cucinare o sapersi raccontare?
“Conta di più saper cucinare. Ma per come va il mondo, non è possibile non sapersi raccontare. La comunicazione è alla base. Però oggi che tutti hanno imparato a comunicare, deve venir fuori chi è capace davvero”.

Lei è anche un atleta, pratica boxe e kick boxing. Dato che fare il cuoco è un mestiere estremamente faticoso, come fa ad aver voglia di allenarsi e salire su un ring?
“Beh, è una grande passione. Sia la kick boxing che la boxe. Come ogni grande passione, il tempo si trova sempre. A me allenarmi trasmette energia, non me la toglie. Per un’ora che impiego in questo modo, ne guadagno due. Perché rimango molto più attivo e reattivo. Per me lo sport è veramente importante come disciplina per sostenere lo stress. Il nostro lavoro di chef è stressante. D’accordo, in questi anni appare come una professione molto ambita, ma è un lavoro che viene fatto in pratica, sempre sotto stress. Perché non lo puoi mai programmare con certezza. Quando cucini, lo fai al momento, nella pratica. E bisogna essere lucidi. Io sono convinto che il ring mi abbia molto aiutato per come affrontare il lavoro. Quando sali su un ring avverti una tensione, e sei da solo, quindi devi stare calmo, devi razionalizzare. E’ uno sport che ti rende forte a livello interiore”.

 

di Francesco Rossetti

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