Il mondo di Alboràn: il nuovo libro di Glauco Ballantini

L’appuntamento è per sabato 10 novembre, alle 18, al salotto culturale di Simonetta Aggazzotti, in viale Martiri della Libertà 38. Sarà la neonata casa editrice modenese Asterione a presentare “Alboràn, 110 racconti in centodieci parole”, un libro dello scrittore livornese Glauco Ballantini (nella foto) al quale abbiamo rivolto qualche domanda.

Ballantini, com’è nata l’idea di questa raccolta di very short stories?
Avevo letto i racconti di Félix Fénéon, un francese che scriveva romanzi in tre righe, una sorta di gioco di prestigio ottocentesco. Da lì il fascino del molto breve. Piuttosto che le righe, ho adottato una regola più precisa con il numero delle parole: 110. Le conta il computer. Quando vedevo che erano 109 ne dovevo aggiungere una; quando erano di più, dovevo sfrondare. 110 è un numero di parole che consente un minimo di svuiluppo del racconto.

Altri modelli letterari?
Sicuramente l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, conosciuta tramite le canzoni di De Andrè e l’album “Non al denaro, non all’amore nè al cielo”. Anche quelli sono mini racconti, ritratti in cui ogni persona racconta la propria vita velocemente. E sinceramente, perché si tratta di epitaffi e in punto di morte ognuno non ha più da nascondere niente.

Rispetto ai contenuti, si è concesso totale libertà?
Sì. I racconti sono costruiti su vicende accadute o che potevano accadere. Spesso ho preso spunto dai testi di alcune canzoni di cantautori italiani che si adattano a una determinata vicenda. Ho inserito una frase o una situazione già sperimentata, un riferimento cinematografico o addirittura echi di sceneggiati televisivi.

Dal libro emerge una sorta di “Commedia Umana” con un affetto speciale per l’appennino tosco-emiliano…
Avevo scritto un racconto lungo sulle vacanze che da bambini facevamo sull’appennino tosco-emiliano di Barga, in un paesino – Renaio – sperduto fra i boschi. Anno dopo anno abbiamo visto l’arrivare della civiltà. All’inizio non c’era ancora la luce elettrica e nemmeno le strade asfaltate. Ecco, di sicuro c’è tutta una fenomologia umana in un paese di montagna.

L’Alboràn, invece, a cosa si riferisce?
È un’isoletta che si trova fra la Spagna e il Marocco, fra due mondi. Ha la caratteristica di essere completamente piatta, ma dispone di tutto quello che serve per la piccola guarnigione spagnola. Allo stesso modo penso che in 110 parole ci dovrebbe essere tutto quello che serve, ridotto all’essenziale, per costruire un racconto. Nel racconto omonimo, invece, Alboràn è come la Samarcanda di Vecchioni o l’anarchico della Locomotiva di Guccini che finisce su un binario morto, per ironia della vita, malgrado tutta la sua passione.

Lei ha un background familiare composto di artisti? Quali le influenze?
Anzitutto in casa i libri ci sono sempre stati. La libreria era un elemento centrale. Mio fratello Dario è anche popolare, muovendosi tra teatro, cinema e pittura. Mio padre dipingeva, una pittura neorealista legata ai temi sociali. Mio nonno anche lui era un’artista: recitò a teatro con Panelli e Bice Valori. Io invece ho cominciato a scrivere dopo i 50 anni. Non mi era mai riuscito di scrivere, anche per fare la tesi di laurea mi ci volle parecchio…

Rispetto a Modena, quali i legami?
Beh, il fatto è che negli ultimi 15-20 anni abbiamo l’abitudine di passare le vacanze a Fiumalbo, sul versante modenese dell’Appennino. Penso sia normale che, vivendo a Livorno, una città di mare, se vai in vacanza per staccare, vai in montagna.

Un Virzì potrebbe ricavarci un film a partire da qualcuno dei raccontini?
Non so, forse spunti per un personaggio…

 

di Francesco Rossetti

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