Il Verdi che racconta gli italiani: l’intervista al giornalista Alberto Mattioli

Ne ha viste di opere Alberto Mattioli (nella foto): tiene il conto e sostiene di aver raggiunto e superato quota 1.600. Forte di questa cultura che unisce visione e ascolto, unita a una viscerale passione, il giornalista e critico musicale modenese non poteva che dedicare un libro al più celebrato e popolare tra gli operisti italiani: Giuseppe Verdi. Il titolo è accattivante: “Meno grigi più Verdi” (Garzanti editore, pagg. 156, 16 euro).

Mattioli, perché un altro libro su Verdi?
Perché non è il solito libro su Verdi. Non è né una biografia – tra l’altro quella definitiva forse non è stata ancora scritta – né uno studio delle opere, piuttosto è un tentativo di raccontare Verdi come antropologo degli italiani. Una sorta di Lévi-Strauss padano che ha sempre raccontato quello che conosceva meglio: gli italiani. Certo, camuffandoli con costumi pittoreschi, esotici, ma le sue opere mettono in rilievo vizi e virtù peraltro ancora perfettamente riconoscibili nella società italiana. Se lo consideriamo da questa prospettiva, allora la prima scena del “Rigoletto” sembra svolgersi durante una delle cene eleganti di Arcore; il protagonista di “Un ballo in maschera” è l’archetipo del bamboccione di provincia, già pronto per comparire nei “Vitelloni”; Radamès è il ragazzo di buona famiglia che si innamora della colf immigrata Aida. Figure tipiche della società italiana di oggi e anche di domani.

Verdi come compositore legato alla realtà italiana?
No, è chiaramente un autore universale. Il suo è un teatro che parla a tutti, senza nessuna distinzione di età, provenienza geografica, posizione sociale, ma alla base è profondamente italiano. Verdi fa l’Italia, ma è anche l’Italia che fa Verdi. Si forma dentro una cultura, una tradizione, un sistema produttivo.

Lei lo accomuna a Machiavelli, Leopardi, Gramsci e Fellini: perché? Cos’hanno in comune?
Sono pochi gli intellettuali italiani che hanno raccontato l’Italia per come è e non per come dovrebbe essere. Penso al Leopardi che non fanno leggere a scuola, quello del “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. Verdi ha uno sguardo molto lucido e disincantato, e anche un po’ shakespearianamente pessimista. Dopo l’Unità d’Italia, Verdi è scettico sui risultati, non si fa molte illusioni, eppure ama profondamente questo paese.

Verdi e la politica, oggi che siamo in tempi di elezioni?
Beh, Verdi ha sicuramente fatto politica con la sua opera, perché il teatro è il luogo della discussione, e tutte le sue opere affrontano o sottintendono grandi questioni: il rapporto con lo Stato, quello fra lo Stato e la Chiesa, il conflitto generazionale, il ruolo del denaro. La stessa “Traviata”, dove la politica non sembra esserci, è in realtà profondamente politica. Una critica radicale all’ipocrisia.

Verdi fa politica anche direttamente…
Sì, ma in maniera riluttante, perché la considera un dovere. Cavour (una delle due personalità che venera, insieme a Manzoni) lo convince a candidarsi, viene eletto al collegio di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza. Da deputato nella prima legislatura del Parlamento italiano, vota leggi fondamentali. Ma si mantiene distaccato. In una lettera scriverà che i deputati sono 449, non 450. Siede davanti a Quintino Sella nell’aula di Palazzo Carignano, con davanti la carta pentagrammata dove sta abbozzando “La forza del destino”. Nel ‘74 viene poi nominato senatore del Regno.

Ci sono ombre nella figura di Verdi? Per esempio, era forse una persona ‘attaccata ai soldi’?
Era anche un uomo d’affari, un businessman, ma non era schiavo del denaro. Lo apprezzava perché gli dava la misura del suo valore. Viveva in una bella casa, amava la buona cucina, ma senza ostentazioni da nuovo ricco, senza cafonerie.

Aveva un carattere aspro, intransigente?
Era un uomo difficile: severo con gli altri e con se stesso, ma capace anche di grande generosità. A Modena molti di noi potrebbero averlo conosciuto, nel senso di chi ha conosciuto vecchi agrari e contadini di una volta, uomini tutti d’un pezzo. Ma è vero che l’unico modo per andare d’accordo con Verdi era fare le cose come le voleva lui. Il poeta romano Cesare Pascarella, intervistato nel 1923 dal Corriere della Sera, confidò: “con Carducci, alle volte, nella foga della conversazione, capitava che gli mettessi una mano sulla spalla; con Verdi non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello”. Anche per gli stranieri Verdi aveva una severità di modi che lo rendeva assai lontano dallo stereotipo dell’italiano.

Lei è caposervizio della Stampa e parallelamente critico musicale e assiduo melomane: come coniugare questa passione al resto della professione?
Significa fare i salti mortali. Tutti i giorni e le domeniche libere sono dedicate al teatro. La grande fortuna è che spesso, non sempre, riesco a fare di questa passione, appunto una professione. L’opera è un divertimento molto forte, in termini di viaggi e di denaro; le opere non sono brevi, richiedono tempo, attenzione, voglia.

Se Verdi fosse vivo oggi e gli avessero proposto di guardare in tv il Festival di Sanremo, come avrebbe risposto?
Probabilmente non gli sarebbe piaciuto perché la qualità musicale quest’anno era molto infelice. Ma l’avrebbe seguito, perché era molto curioso. Era sempre molto al corrente di tutto, delle novità non solo artistiche, anche quelle tecnologiche. Verdi credeva profondamente nel progresso. Ora non che Sanremo sia il progresso, però è sicuramente un’espressione della contemporaneità e a Verdi il suo tempo interessava moltissimo. Non era uno snob.

di Francesco Rossetti

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