La grande disfatta di Caporetto e le sue ripercussioni su Modena

Qualche giorno fa – il 24 ottobre, per l’esattezza – i media italiani hanno ricordato il centenario della disfatta di Caporetto. Il nome di questo piccolo comune che ora si trova in terra slovena, vicino al confine, è entrato nel linguaggio colloquiale. Quante volte abbiamo sentito espressioni del tipo “questa legge finanziaria sarà una Caporetto per le famiglie”? Oppure: “l’Italia va allo spareggio con la Svezia. Il ct Ventura: non sarà una Caporetto!”.

La verità storica è che in quel funesto giorno i soldati austro-tedeschi avanzarono inesorabili lungo il fiume Isonzo e alla sera del primo giorno di battaglia si contavano già 15.000 italiani catturati come prigionieri. La disfatta fu uno shock per l’esercito e l’intera nazione: nel giro di venti giorni 10.000 chilometri di territorio vennero ceduti al nemico e quasi 300.000 soldati furono presi prigionieri. In 600.000 furono invece obbligati a lasciare le loro case, dando vita – insieme alla massa di soldati allo sbando – ad un epocale esodo umano in ripiegamento verso l’interno. Lo storico e giornalista mirandolese Fabio Montella ha dedicato svariate pubblicazioni alla Grande Guerra, raccontandola dall’angolazione del territorio modenese. “In effetti un numero impressionante di soldati e profughi delle terre invase o minacciate dal nemico”, spiega, “si riversò in massa in Emilia, scelta per la sua posizione strategica di collegamento tra Bologna, Milano e Verona. L’area modenese, in particolare, si confermò come un centro attivo e popoloso per la cura dei feriti, l’accoglimento dei profughi e il riaddestramento delle truppe”. La proverbiale operosità emiliana diede prova di sé anche in quel difficile frangente. Si imbastirono a tempo di record ospedali da campo, infermerie, lavanderie e magazzini per la distribuzione di viveri. Si susseguono appelli alla popolazione da parte di autorità civili e religiose. La provincia di Modena, insieme ad altre sette, viene dichiarata ufficialmente con regio decreto, territorio in stato di guerra.

In realtà”, prosegue Montella, “dopo Caporetto tutta l’Italia settentrionale viene sottoposta a una specie di dittatura militare che comporta la sospensione dei diritti di riunione e di associazione, la possibilità di scogliere circoli e Camere del Lavoro, l’impedimento di ogni attività politica e sindacale, la soppressione del diritto di sciopero”. Quanto ai profughi, la loro presenza nel modenese diviene un problema rilevante dopo Caporetto. Le limitate capacità di accoglienza vengono messe a dura prova. “Al loro arrivo a Modena”, racconta Montella, “i profughi venivano accompagnati in piazza Sant’Agostino, dove trovavano un pasto caldo, minestra e pane. La stessa chiesa di sant’Agostino venne sgombrata per ricoveri notturni. Mentre molti dei profughi, e tra loro moltissime donne, trovarono lavoro nelle fabbriche e nelle attività legate all’economia di guerra, per esempio nei laboratori mascheramento di Carpi e Correggio”.

 

La sconfitta di Caporetto nella narrativa

Bisogna aver disceso tutti gli scalini dell’umanità per mordere alla radice stessa della vita, aver ‘mangiato la terra e averla trovata deliziosamente dolce’ come i primi uomini delle leggende indiane, aver sofferto, sperato, maledetto, bisogna essere stati uomini, semplicemente umani, per poter leggere questo libro senza pregiudizio e sentirvi il sapore della vita. Non è un libro di guerra, questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito, all’ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano, di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d’amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d’odio e di disperazione”. Comincia con queste vibranti frasi “Viva Caporetto!”, forse meglio noto con il titolo di “La rivolta dei santi maledetti”, di Curzio Malaparte. Un libro ripubblicato di recente che rimane tra le più originali riflessioni sulla prima guerra mondiale e sull’impatto che ebbe su una società, come quella italiana, poco attrezzata culturalmente per affrontarla. Ulteriori esempi di narrativa di alto livello su Caporetto e dintorni sono quelli di Giovanni Comisso “Giorni di guerra” e lo stesso celebre “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, malgrado lo scrittore americano non partecipò alla battaglia, essendo giunto in Italia solo nel 1918. (La foto appartiene agli archivi del Fotomuseo Panini e della biblioteca Poletti)

di Francesco Rossetti

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