L’epopea dello Schiavoni, raccontata in un libro da Antonio “Rigo” Righetti

Il bar come luogo di aggregazione, ricettacolo di storie e personaggi di stampo felliniano. Così ci è stato raccontato in numerosi libri e film e così può essere descritto anche il bar Schiavoni, storico e minuscolo locale di fianco al mercato coperto Albinelli. Al Bar Schiavoni e in particolare ai suoi anni ‘70 quando a gestirlo c’era suo padre Guido, Antonio “Rigo” Righetti ha dedicato un libro, edito da Artestampa e intitolato “Schiavoni Blues”. “Questo libro è nato in un modo quantomeno particolare”, racconta Rigo. “Alla morte di mio padre, nel 2005, io e mio fratello abbiamo trovato a casa sua una decina di pagine autografe, dove Guido descriveva, con dovizia di particolari e grande approfondimento psicologico, il mestiere che aveva fatto per tutta la vita, quello di barista. E’ da lì che sono partito per scrivere ‘Schiavoni Blues’“.

In quale periodo tuo padre ha gestito il Bar Schiavoni?
Lo ha acquistato negli anni ‘50 e lo ha ceduto nel 1981, tenendolo quindi per circa trent’anni. Negli anni ‘70, in estate, diventava per me una sorta di centro estivo, visto che mi trovavo spesso a giocare nei vicoli attorno a Schiavoni. Mio padre poi è stato anche il mio peggior datore di lavoro, il più autoritario, ma mi ha insegnato un mestiere che non è però diventato il mio. In “Schiavoni Blues” racconto questo mestiere, ma anche un po’ della Modena degli anni ‘70.

Il Bar Schiavoni, essendo tra l’altro centralissimo e vicino all’Albinelli, possiamo dire che rappresenta bene quella Modena degli anni ‘70…
In un certo senso si. La prima sede del Bar Schiavoni era un chiosco dietro alla statua del Muratori, sotto al Duomo, chiosco che ora è a Mirandola e dove venivano venduta bibite e altre cose. Schiavoni era un distillatore di liquori e mio padre lo rilevò proprio da lui, tant’è che abbiamo avuto la casa invasa da etichette liberty molto belle. Nella Modena degli anni ‘70, poi, una Modena non da età dell’oro ma di forte incontro tra due generazioni, quella della Guerra di mio padre e la prima della controcultura di cui conosciamo ancora diversi personaggi, il bar era un luogo in cui si incrociavano e si raccontavano storie differenti. Poteva succedere anche che qualcuno si presentasse con un radioregistratore e pretendesse di allietare la clientela con “Hot Rats” di Frank Zappa, disco molto bello, ma quantomeno bizzarro.

Nei film e nei romanzi il bar è spesso popolato di personaggi particolari. Succedeva anche allo Schiavoni?
Si, ne posso citare due: il Cavallo e Sterminio. Il primo ricordava un po’ l’indiano di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Era dotato di grande forza fisica e di un apparato riproduttivo che definiva il suo soprannome, ma allo stesso tempo era capace di geniali citazioni latino-bibliche. Sterminio invece era uno dei primi “homeless” che era stato adottato dal bar. Gli piaceva bere, ma veniva obbligato a mangiare prima di farlo. Così capitava che a turno si dovesse offrire da mangiare a Sterminio per permettergli poi di bere. Erano personaggi davvero felliniani.

E’ vero che il famoso panino col cotechino fu introdotto da tuo padre?
Si, l’aveva introdotto utilizzando Temellini che era dentro al mercato coperto. Era una roba un po’ da scaricatore di porto che poi è stata perfezionata da chi ha gestito successivamente il bar fino ad oggi.

Una realtà come il Bar Schiavoni di quegli anni potrebbe ancora esistere al giorno d’oggi?
Credo che il Bar Schiavoni, come concetto, ci sia in ogni città. Oggi cominciano ad essercene pochi, ma sono convinto che è una moda che prima o poi tornerà.

di Giovanni Botti

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