Libri: il caso Moro raccontato 40 anni dopo in un romanzo-verità da Antonio Ferrari

Tra poche settimane ricorreranno i quarant’anni da un evento epocale per la recente storia italiana: il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana. La vicenda, piena di punti oscuri, è ora ripercorsa ne “Il segreto” (ed. Chiare Lettere), il romanzo di Antonio Ferrari, editorialista e inviato di lungo corso del Corriere della Sera, giornalista (e in questo caso romanziere) che deve i suoi natali a Modena.

Ferrari, perché un romanzo e non un’inchiesta giornalistica?
Bisogna tornare indietro a quando l’ho scritto, nel 1981. Lo scandalo della P2 era stato devastante per noi del Corriere. Fu allora che l’azienda stessa mi convocò; all’epoca avevo la scorta perché seguivo il terrorismo insieme a Tobagi e altri colleghi. Mi dissero: dobbiamo dare un segnale forte che il Corriere è ancora vivo, capace di produrre inchieste. Scrivi un saggio sulla vicenda di Moro. Risposi: no, posso scrivere un romanzo, raccontando i fatti in chiave romanzata, un po’ come fanno gli americani oggi. Racconterò una storia compenetrando tre parti: 60% di verità, 20% di fantasia, 20% di sospetti su vicende delle quali non potevo avere le prove.

Cosa non quadra nel Caso Moro?
La strage fu un’azione da commando fin troppo perfetta. In tre minuti… uccidere cinque persone, senza errori… Poi due mesi di sequestro sono lunghissimi e l’uomo più importante d’Italia non può scomparire così nel nulla… Beh, io comunque lo scrissi quel romanzo – con un contratto, un anticipo – poi cambiarono i direttori generali della casa editrice, la Rizzoli, e nessuno volle più pubblicarlo.

Perchè?
Il libro metteva in discussione una lettura della vicenda che si voleva condivisa.

E lei lasciò il libro in un cassetto?
Sì, diventai inviato internazionale, cambiai scenario, ma sono un tignoso – a Modena si dice ‘tignolein’. Due anni fa pensai che non fosse possibile che questa storia rimanesse segreta, lo feci leggere a un agente letterario, è piaciuto. Ora, in pochissimo tempo, siamo già alla quinta edizione. È un libro che colpisce molto.

Un periodo complicato, gli anni ’70?
Sì, furono anni molto tesi, aperti dalla strage di piazza Fontana e chiusi con il caso Moro e, appunto, lo scandalo P2.

Come far comprendere quell’epoca a un millennial, un diciottenne di oggi?
È proprio quello che spero, che lo leggano loro. Bisogna ricominciare daccapo a raccontare la nostra storia. Ci sono papà e mamme che mi chiedono la dedica ai loro figli piccoli, perché conoscano quello che è stato il nostro Paese.

Non una pagina esaltante…
Il caso Moro è il nostro 11 Settembre e gli 11 Settembre in tutto il mondo presentano sempre zone grigie che nascondono cose inconfessabili. Peraltro non solo in Italia. Negli Stati Uniti ancora non hanno fatto chiarezza sull’omicidio di Kennedy e nemmeno sull’attacco alle due torri.

Aldo Moro dava fastidio a livello internazionale?
Sì, non tanto al presidente americano Carter, ma ai cosiddetti apparati che non volevano l’ingresso dei comunisti al governo. Non lo volevano neanche in Russia. Insomma ci fu un inserimento di più servizi segreti. Lo stesso Papa Paolo VI scrisse la famosa lettera agli uomini delle Brigate Rosse, non alle Brigate Rosse, come se volesse intendere altro rispetto ai terroristi… Le mie sono ipotesi, interpretazioni che cercano di far luce sulla verità dei fatti.

È vero che anche Margarethe von Trotta voleva trarne un film?
Sì, venne a Milano per conoscermi e ci incontrammo. Voleva raccontare la storia di un giornalista ostacolato, sarebbe stato impersonato da Gian Maria Volonté…

Antonio Ferrari, torno al suo passato genovese per chiederle un ricordo di Piero Ottone, grande giornalista scomparso meno di un anno fa…
Nella mia carriera ho avuto quindici direttori di giornale: tre di questi due volte. Uno era Piero Ottone che mi ha diretto al Secolo XIX e al Corriere della Sera. Che dire, è stato il più grande direttore che ho avuto, senza alcun dubbio.

Diceva che sarebbe stato ricordato per due cose: aver portato Pasolini in prima pagina sul Corriere e aver licenziato Montanelli…
Beh, Ottone non era il tipo da auto elogiarsi. Certo una direzione di cinque anni del Corriere di allora (dal 1972-1977) ne vale una ventennale ai tempi nostri. Lo ha riconosciuto anche Ezio Mauro. Negli anni ‘70 portare Pasolini in prima pagina sul Corriere fu un atto rivoluzionario, ritenuto eversivo dall’intellighenzia di destra. Lui peraltro non era un uomo di sinistra; era un liberal all’inglese, di educazione anglosassone. Sul licenziamento di Montanelli, sarei molto più cauto sulla reale decisione. Lui fece il passo, ma lo voleva lui o la proprietà (la famiglia Crespi)? Nell’ultima intervista che feci a Ottone prima che morisse, lui ammise che forse quello era stato un errore.

Si sente ancora molto legato al Corriere della Sera?
Come potrei non esserlo. Ci lavoro dal 1972, per me quel giornale conserva un abito quasi sacrale

di Francesco Rossetti

WP-Backgrounds Lite by InoPlugs Web Design and Juwelier Schönmann 1010 Wien