Il rapporto tra Modena e il Jazz raccontato in un libro da Roberto Franchini

Sul jazz si annoverano diversi aforismi, più o meno noti. Si va da Louis Armstrong “Il jazz? Se devo spiegartelo, non lo capirai mai” a Lou Reed “Se ci sono più di tre accordi, è jazz”, per arrivare a Baricco “Quando non sai cos’è, allora è jazz”. Chiedo a Roberto Franchini, autore di “Cento anni di jazz a Modena. Storia di una musica e dei suoi musicisti”, edito da Artestampa, quale preferisca. Lui rilancia: “Ero preoccupato avessi scelto quello di Frank Zappa: il jazz non è morto, ha solo un odore un po’ strano”. È ancora viva, dunque, questa musica così carica di suggestioni, seppure a Modena non abbia mai riscosso un seguito paragonabile ad altre realtà italiane, anche emiliane. Per questo, prendendo a prestito il titolo dell’introduzione, chiedo:

Perché scrivere una storia del jazz sotto la Ghirlandina?
Intanto non ce n’era una. Poi, un po’ a pretesto, ricordo che il jazz compie 100 anni. È del 1917 la prima incisione di una jazz band, guidata da un siciliano che si chiamava Nick La Rocca. Inoltre, qualche anno fa, l’Unesco ha proclamato il 30 aprile come giornata mondiale del jazz. Perfino in Mongolia festeggiano questa giornata. Insomma il jazz rappresenta la musica del ‘900, ha dato origine a forme musicali che hanno avuto anche più successo popolare: il rhythm’n blues, il rock&roll e il rock. Ma è stata un lievito anche per altre musiche, perfino per la new age. Shostakovich ne fu folgorato, tanto da comporre una jazz suite.

Tracciare una storia del jazz offre l’occasione di abbozzare anche una storia del costume della città, giusto?
Sì, nella prima parte del libro racconto come il jazz fosse una musica per ballare e cito un po’ di locali, di orchestre che spesso viaggiavano assieme alle compagnie di varietà e avanspettacolo. C’era il presentatore, il comico, le ballerine, e quindi i musicisti, i primi a proporre musica sincopata in Italia. Approdavano perlopiù allo Storchi. Mentre al Comunale, dal 1955 in poi, la musica lirica, la classica e la prosa sono stati i generi che hanno sempre dominato. Di fatto il jazz non ha mai avuto molto spazio. Il volume ha un’articolazione cronologica, decennio per decennio. Ma c’è un passaggio centrale, quello che vede il rock&roll soppiantare il jazz come musica dei giovani… Ci sono sette capitoli che tracciano una storia fino agli anni ‘90, poi una serie di brevi inserti dedicati a festival (per esempio il Jazz in’It di Vignola) e a luoghi (dal Comunale al Baluardo). Qualche pagina la dedico proprio al passaggio che avviene tra il jazz e il rock&roll fra il 1955 e il 1963, usando due date in modo simbolico. La prima è quella del 18 dicembre ’55 con il concerto di Armstrong al Comunale che suscita un successo entusiasta fra i giovani. Meno di otto anni più tardi Celentano fa il pienone al palasport di viale Molza. Il rock diventa la musica delle classi popolari.

E anche i giovani modenesi impazziscono per il rock…
Sono gli anni in cui nasce la categoria dei giovani. Può sembrare incredibile, ma prima non esisteva. I giovani diventano una fetta di mercato, cominciano ad aver soldi da spendere. I fenomeni degli anni 60, dalla musica alla moda, si spiegano col fatto che qualcuno compra. Escono i 45 giri che hanno un successo eccezionale.

Il jazz in salsa emiliana, viene facile associarlo a certi film di Pupi Avati. Era quella la realtà delle orchestrine?
Sì, anche nel modenese, le orchestre suonavano per ore ed ore, come peraltro negli Stati Uniti. Le gare di ballo degli anni ‘30 proseguivano fino alle 5-6 di mattina, un tour de force impressionante. Tra i musicisti c’era chi magari era entrato nell’orchestra della Rai, e chi sbarcava il lunario, suonava dove riusciva. Pippo Casarini, a cui dedico un capitolo a parte, cominciò a suonare prima dello scoppio della guerra. Girò l’Italia nell’orchestra di Gordi Kramer (uno dei musicisti più amati dal pubblico popolare, un fisarmonicista mantovano a cui il padre aveva messo nome Kramer, come un ciclista americano dei primi anni del ‘900). Casarini suonava dappertutto nel mondo, nelle navi da crociera, in Estremo Oriente, poi nel 1964 tornò nel modenese, si stabilì a Nonantola e cominciò a suonare nelle scuole. Insomma la vita del musicista jazz è sempre stata faticosa, a parte qualche nome. Lo stesso Henghel Gualdi, definito il Benny Goodman italiano, ha sempre dovuto suonare tutti i generi per portare a casa lo stipendio.

Il libro presenta anche un corposo indice dei nomi…
E anche un piccolo dizionario imperfetto, magari non esauriente, dei musicisti jazz viventi attualmente. E c’è un focus sulla New Emily Jazz Orchestra. Ma anche curiosità come il primo esempio italiano di jazz poetry, dovuto alla penna di Guglielmo Zucconi.

Franchini, in conclusione, se dovesse individuare uno strumento per definire il jazz, quale sceglierebbe?
Il sassofono: nelle sue quattro varianti, dal soprano al baritono.

Un disco?
Due: “A love supreme” di Coltrane e “Bitches Brew” di Miles Davis.

Un film?
Ancora due titoli: “Ascensore per il patibolo” di Louis Malle, con le musiche di Davis, e “Round Midnight” di Bertrand Tavernier.

Un libro?
“Peggio di un bastardo”, l’autobiografia di Charlie Mingus.

Il libro verrà presentato il 18 febbraio, alle ore 18, al Baluardo della Cittadella, con Michele Smargiassi e Alberto Bertoni.

 

di Francesco Rossetti

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