Roberto Barbolini, un “angelo dalla faccia sporca” per amico

Ha un titolo da gangster-movie il nuovo libro di Roberto Barbolini: “Angeli dalla faccia sporca”, uscito per Galaad Edizioni. È insieme una raccolta di saggi critici sul giallo e il noir, e un romanzo di formazione. “O di deformazione, se lei preferisce”, precisa.

Barbolini, anche il cinema ha nutrito la sua passione per il noir?
Sì, da Hitchcock fino a Dario Argento. Soprattutto i film degli anni ‘40 e ‘50, i registi francesi del bianconero, classici come “Il falcone maltese” di John Huston con Bogart. Il titolo è però legato anche a tre grandi calciatori (Sivori, Angelillo e Maschio), chiamati “los angeles de la cara sucia” quando giocavano ancora in Argentina. Destino volle che arrivarono tutti e tre in Italia, peraltro con destini diversi. L’idea del titolo si lega dunque a un mio discorso sulla bellezza. Oggi trovo inutile essere nostalgici di un bello classicheggiante o romantico (nel senso di Novalis, di Keats), però non bisogna smettere di cercare la bellezza, solo che magari va riscoperta proprio sotto la faccia sporca, attraverso i cliché della ‘cattiva letteratura’, dell’esagerazione.

Che sogni faceva Roberto Barbolini da ragazzino? Aveva già questo immaginario nutrito da immagini spaventose?
Un po’ sì. Lo racconto anche scherzosamente nel libro. La mia fortuna è stata di essere un bambino spesso malaticcio. Leggevo molto. La tv non era ancora un fenomeno così pervasivo, internet era di là da venire. Lo spazio dell’evasione era nei libri, prima le storie di pirati (Salgari, Stevenson) poi la scoperta di Edgar Allan Poe e del poliziesco. Poi mi sono appassionato al giallo classico, d’indagine razionale alla Sherlock Holmes, e sono andato nella direzione dell’hard-boiled di Raymond Chandler, Dashiell Hammett, Chester Himes.

Il noir francese l’ha frequentato un po’ meno?
Ne ho scritto meno, forse, ma mi interessa molto. Chester Himes, al quale dedico uno dei saggi, ancora misconosciuto in America, emigrò in Francia e fu lanciato dalla “Série noire” di Marcel Duhamel.

Quanto si mischia Modena con il noir, nel suo libro?
In vari modi, con spunti autobiografici. Andavo con la mia paghetta settimanale alla libreria Tarantola che si trovava all’epoca lungo corso Canalchiaro. Io abitavo in Bonacorsa 33. Nel saggio su Salgari racconto come la passione per il noir sia stata rinsaldata da una signora: Nerina Secchi Fresia. Era la vedova di Attilio Fresia, uno dei fondatori del Modena Football Club. La signora era madrina del Modena, ne aveva ricamato i gagliardetti. Aveva la tessera permanente per andare allo stadio e portava anche me. Per questo la tenevo in gran conto. Bene, lei mi inflisse purtroppo la lettura di un libretto di una sua amica, tale Ida Pannavaja Montanari, un mieloso “Col cuore nel cuore” che era un elogio sperticato del “Cuore” di De Amicis. Lo lessi e da quella volta ho talmente odiato la letteratura dei buoni sentimenti, che volevo solo pirati che tagliavano teste, sventravano nemici…

Anche Dracula si lega a Modena: in che modo?
Il Dracula moderno nasce nel 1819 da un racconto lungo di John William Polidori, il segretario di Lord Byron. Un libro scritto per scommessa, così come Mary Shelley (la moglie di Percey) scrisse Frankenstein. Due anni dopo Charles Nodier pubblicò un seguito in cui il vampiro Lord Ruthven arriva a Modena, spacciandosi per un lord inglese, si guadagna la fiducia del duca, diventa primo ministro, ne sposa la figlia, la vampirizza, poi viene smascherato e ucciso. C’è dunque un antecedente letterario. In più ho fatto dare la cittadinanza onoraria a Christopher Lee, il più celebre Dracula dello schermo, che era un Carandini per parte di madre. Lui era molto fiero di questo ascendente. E oggi c’è un ottimo scrittore di vampiri che è Claudio Vergnani.

Di cosa parla “Nero Wolfe in via Pastrengo”?
È un libro breve a cui sono molto affezionato, con i profili di sei personaggi che per me son stati amici e maestri: Pontiggia, Arpino, Garboli, Fink, Anceschi e Manganelli. Ritratti scherzosi, affettuosi.

Chi dei sei era Nero Wolfe?
Pontiggia, ne aveva la corporatura imponente. Tenne uno dei primi corsi di scrittura, quando non c’era ancora la moda, al Teatro Verdi di Milano. Ero andato a intervistarlo per il Giornale di Montanelli e diventammo amici. Arpino invece lo apparento a Philip Marlowe…

E con Giorgio Manganelli?
Non l’ho mai incontrato, ma ci siamo sentiti al telefono. Ne avevo scritto come di un San Giorgio Manganelli in lotta con il ‘drago del linguaggio’. Aveva apprezzato l’ironia. Mi disse: lei è dotato di una curiosa intelligenza tangenziale. Ecco, questa è una definizione che mi sono appuntato come una medaglia.

Barbolini, perché si legge sempre meno?
Si legge meno perché tutto è talmente velocizzato, è più semplice cliccare su internet. Il bisogno di storie viene soddisfatto dalle serie televisive. Dicono sia in corso una rivoluzione epocale che agisce sulle strutture celebrali, però… Però ho letto che quest’anno le vendite in libreria sono leggermente aumentate. Una rondine non fa primavera, ma i libri tradizionali resistono. Se la fotografia non ha fatto morire la pittura, la tv non ha ucciso il cinema, allora la letteratura rimane. Anche perché costa poco, non ha bisogno di grandi supporti fisici.

Cosa ne pensa del successo degli audiolibri?
Si risparmia tempo, uno va in macchina e nel frattempo ascolta Moni Ovadia che legge i racconti di Singer. Viviamo un’epoca che va sempre più veloce, anche perché non sa dove andare. Si investe sul tempo libero per gente che ha sempre meno soldi, s’inventano mestieri inesistenti, c’è un personal trainer per tutto. Allora sì che le chimere della letteratura possono salvarci dalle ansie di un futuro minaccioso.

di Francesco Rossetti

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