Tre giorni intorno al tema “verità”: l’intervista a Daniele Francesconi, direttore scientifico del FestivalFilosofia

Il Festival Filosofia di Modena compie 18 anni e l’edizione 2018, in programma dal 14 al 16 settembre, sarà la seconda con Daniele Francesconi (nella foto) alla direzione scientifica. Almeno queste sembrano essere certezze, benché quest’anno la parola chiave – verità – conduce in un terreno scivoloso qualsiasi affermazione che abbia qualche pretesa di inoppugnabilità.

Francesconi, oggi sappiamo che di verità ce ne sono tante quante sono i punti di vista. Il FestivalFilosofia come riuscirà a fare sintesi?
Cerchiamo di giocare su questo termine, sottolineandone il carattere sia singolare che plurale. La filosofia ci insegna che verità è qualcosa che va ‘passato contropelo’. La domanda è: ma è proprio vero? Il nostro tentativo è dimostrare come la questione della verità sia sempre di carattere contestuale, poggia sull’accuratezza e non si risolve mai in un contrasto assoluto fra vero e falso.

Quando la filosofia ha incontrato la ‘verità’?
Con i greci. Forse la verità è la grande invenzione che la filosofia lascia in eredità alla nostra civiltà. A partire dai sofisti che furono i primi a rendere la verità un fatto di tecnica. Anche Socrate adottava tecniche sofistiche ma le utilizzava in modo non mercificatorio, mentre i sofisti divennero veri e propri professionisti. Prima che la verità fosse declinata in questo modo, l’Aletheia era un tema degli oracoli, della divinazione, del mito.

Il festival modenese ha grandi numeri: può definirsi divulgativo?
A noi la parola divulgazione non piace tanto, perché suppone poco rispetto nei confronti del destinatario, l’idea di qualcosa che si semplifica. Noi pensiamo piuttosto a un nuovo modo di fare formazione pubblica. I nostri relatori sono tutti accademici, autori a cui il Festival chiede di fare un passaggio, e cioè di traghettare gli esiti della propria ricerca scientifica nello spazio pubblico, svolgendo argomentazioni, ‘discorsi senza note’ che abbiano rigore e che siano parole argomentate.

Una frase alla Clint Eastwood recita così: quando un uomo con un ragionamento incontra un uomo con lo slogan, l’uomo col ragionamento è un uomo morto. È così oggi?
Da un certo punto di vista sì, prevale la semplificazione, l’annuncio, il cortocircuito, laddove il confronto, l’accuratezza e il tempo dedicato sono virtù in minoranza; per questo sono anche nuclei di umanità e pensiero critico da preservare.

È vero che gli intellettuali hanno perso peso nel dibattito pubblico di oggi?
In parte è vero, forse abbiamo attraversato fasi storiche in cui gli intellettuali hanno inciso di più perché hanno formulato scenari di futuro, correlandosi a progetti di futuro, dall’Illuminismo in poi. Filosofi che avevano una prossimità con la politica, che articolavano un’ideologia. E nelle ideologie ci sono anche aspetti positivi, perché offrono parole chiave, grammatiche del mondo. Oggi viviamo in un’epoca molto più spaesata. Credo che gli intellettuali possano provare a ritrovare un nuovo terreno in cui esprimersi, basta che siano autonomi dal potere di turno.

Anche perché i poteri sono piuttosto liquidi, oggi. Zygmunt Bauman, come avrebbe articolato la questione verità?
Credo che avremmo potuto chiedergli di sviluppare il tema del rapporto dell’intellettuale col potere, anche per la sua storia di dissidenza.

Alcuni filosofi tornano ogni anno: poco coraggio nel rischiare con nomi nuovi?
Quest’anno abbiamo 24 nuovi relatori, un impegno di rinnovamento molto più cospicuo rispetto al passato, un compito che mi sono dato come prospettiva di lavoro. D’altra parte gli autori che tornano più volte possono vantare un tale percorso e una tale pluralità di temi che possono predisporre una lezione diversa ogni volta.

Come scegliete le lezioni dei classici?
Rientra nel lavoro di articolazione del programma. Scegliamo gli 8-10 opere spartiacque. Sono un invito alla lettura, a guardare il passato per tirare il filo fino al presente. Li si legge per differenza rispetto al nostro mondo, altrimenti sarebbe un esercizio di mera erudizione.

Ogni anno presentate un campionario di aforismi. In cosa consiste il loro fascino?
Nell’idea di far vedere il barlume, la scintilla di un pensiero in poche parole ben scelte.

Sono come dei tweet?
Sì, con la differenza che i nostri sono frutto di una ricerca documentaria. Andiamo a verificare le edizioni, confrontiamo traduzioni differenti. Sui social network, il 90% delle frasi sono apocrife, noi invece proviamo a fare un lavoro di precisione.

Lei è juventino, allora le chiedo se il Festival Filosofia non sia ormai un’istituzione culturale fin troppo forte, tanto da rischiare di risultare antipatica come la Juve?
Le rispondo con una battuta: mi piacerebbe avere il budget della Juve. Poi osservo che la Juventus è una squadra in uno sport dove vince uno solo. Noi operiamo in un campionato, quello della cultura, dove si può vincere in tanti, anzi più si vince e meglio è. La cultura è un bene comune!

 

di Francesco Rossetti

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