Voci davanti a un fuoco: a colloquio con Sandro Campani

È presto detto: “Il giro del miele” (uscito all’inizio dell’anno per Einaudi) è uno dei romanzi più belli di questa stagione – una narrazione ipnotica per quanto è precisa. La cornice: due amici di età diverse che si raccontano davanti a un fuoco acceso. L’autore è Sandro Campana, e questo è il testo integrale dell’intervista pubblicata su Vivo Modena.

Sandro, “Il giro del miele” è ambientato nel nostro appennino. Quanto conta un luogo per uno scrittore? Kundera dice che un romanziere non ha le radici in un paese, bensì in alcuni temi esistenziali che lo affascinano. È così anche per te?
Senz’altro. Ma sono due livelli che si vanno a intersecare, che devono stare insieme. Io sono uno scrittore di luoghi, e ho una predilezione per gli scrittori che sanno descrivere i luoghi. Però il rischio di trasformarsi in uno scrittore strapaesano legato al folklore locale è da tenere ben presente, perché non si fa un bel servizio né all’autore, né alla letteratura in quanto tale. Kundera ha ragione, i temi di cui si scrive sono legati universalmente all’essere umani. Per me temi spesso legati alla famiglia, a certe contrapposizioni che nella vita si è costretti ad affrontare, il senso di inadeguatezza, il lavoro, rapporti familiari, un tasso di mistero. Suggestioni che tornano sempre, che mi colpiscono e danno forma ai personaggi. Il luogo in sé è quella cosa che ti fa da base e ti permette di parlare di cose che hai vissuto, di andare a scovare temi universali dentro un pozzo da cui sgorgano cose vive e non dentro a un artificio. Credo che uno debba parlare di cose che conosce bene, perché ci dev’essere una forma di verità in quello che scrivi: non la presunzione di una verità assoluta, ma una questione di coerenza nell’approccio. Dopodiché se fossi soltanto un narratore di luoghi, potrei scrivere guide turistiche.

Tu comunque vivi in appennino, vero?
Sono originario di Vitriola, nel comune di Montefiorino, dove ho abitato per una trentina d’anni. Ora abito sull’appennino reggiano, un po’ più in basso, in collina, a una mezz’ora da Reggio o da Sassuolo. Un compromesso.

Da quale dei personaggi ha preso avvio il romanzo?
Una delle immagini iniziali che mi hanno colpito e mi hanno fatto cominciare è stata la visione di una coppia di ragazzi in un rifugio in montagna. C’era un ragazzo con uno sguardo molto pulito, con un maglione a stelle natalizie, e una ragazza di fronte a lui, appena scampati a un temporale, si guardavano con sguardo da innamorati. Da lì altre cose che avevo in testa si sono accese. Quindi il personaggio di Davide, con questa sua inadeguatezza al mondo, il ‘bravo figliolo’ come lo chiamano le nonne del paese. Poi, passando nel corso della lavorazione dalla terza persona onnisciente alla prima persona, quella di Giampiero, ecco… il suo personaggio, il suo sguardo è quello che mi commuove di più.

Ho letto una recensione che definisce la tua scrittura come “sorvegliata”. Cosa s’intende?
Quell’aggettivo mi ha fatto molto piacere perché lo trovo centrato, mi piacerebbe davvero fosse sempre così. “Sorvegliato” ha tante piccole sfumature. Ogni volta che usi la lingua, hai davanti centinaia di possibilità diverse, tu sai che stai per utilizzare un sistema di artifici per arrivare a un certo scopo, ecco perché essere sorvegliati è importante. Ogni volta che scrivi, devi sapere se quello che stai scrivendo è coerente col modo in cui la vita ti ha colpito. Una questione di onestà, onestà dello sguardo. Devi capire se stai cercando l’effetto, l’esibizionismo stilistico, le scorciatoie, o se stai cercando di scavare a fondo per rendere qualcosa di vivo. “Sorvegliato” ha anche a che fare con una questione tecnica, cercare sempre il modo più profondo, stratificato, pulito, cercare di arrivare all’aggettivo giusto, non tirare via, non accontentarsi, lavorare finché quello che volevi dire venga detto nel modo più giusto. Io leggo e rileggo maniacalmente, e non sono uno scrittore prolifico.

Il giro del miele

Prendi molti appunti prima di procedere alla stesura di un romanzo?
Ho scritto quattro libri e non ho utilizzato un metodo uguale per nessuno di loro. Prendere molti appunti sui personaggi… è la seconda volta che lo faccio, non è stato sempre così. Non sto facendo una scaletta in cui delineo una trama premeditata e scandita nei suoi colpi di scena. Sto prendendo appunti che hanno a che fare con la vita, il carattere dei personaggi, per costruire delle persone vere, in modo che quando si tratterà di farle agire nelle pagine, saprò chi sono. La trama, per come scrivo, sboccia in maniera inaspettata, in corso d’opera. Magari certe cantonate che ti portavano a scrivere per un anno intero e dover buttar via tutto non le prendo più, affronto la pagina bianca con un minimo di senso, di direzione, ma restano sempre moltissime maglie aperte, io stesso mi stupisco di come i personaggi agiscono.

Conosci il settore dell’apicoltura?
Non direttamente. Intorno a dove vivo, però, in molti hanno alveari: per hobby, non per viverci.

Invece la falegnameria? È in crisi?
È un lavoro molto cambiato. Tutta una serie di cose sono diventate industriali. I serramenti delle case, ad esempio, si fanno fare in serie, spesso sono di materiale plastico, neanche di legno. Il falegname diventa uno che compra, rivende e magari si occupa solo del montaggio. Oggi i lavori si fanno in cantieri con misure standardizzate. Una volta tutto era più irregolare, ogni finestra presentava un problema diverso da affrontare; era un lavoro più artigianale.

La spuma (come quella che Silvia offre a Uliano) si trova ancora nei bar di montagna?
Anche quello è un discorso lungo, ma attenzione, quella del bel tempo andato non è assolutamente la mia poetica. Vorrei solo descrivere dei personaggi credibili, sgombrando il campo da quel tipo di nostalgia. Tornando alla spuma, quando ero piccolo, di baretti ce n’erano a decine, ora molto meno. Da un certo punto di vista è anche più salutare. Ti fermavi a far colazione, prendevi delle paste confezionate che magari erano scadute da mesi e te ne accorgevi dopo che le avevi già mangiate.

Sei anche un musicista. A te quale musica ha cambiato la vita?
I Nirvana. Hanno fatto da spartiacque. I miei vent’anni sono stati loro, e, in Italia, (ed è stata una grossa fortuna averli avuti in quel momento vicini) i CSI di Ferretti e i Massimo Volume di Emidio Clementi. A ritroso mi sono poi costruito tutta la mia cosmogonia di gruppi, dai Velvet Underground fino ai Joy Division, a Nick Cave. Dalle nostre parti avevamo la fortuna di avere Radio Antenna Uno che ci ha formati molto.

Ancora due domande. Vinicio Capossela dice che gli italiani si dividono fra coloro che vivono nelle città e sulle coste e quelli che vivono all’interno, lungo l’asse appenninico. Sei d’accordo?

Capossela ha radici irpine, ha vissuto in realtà diverse fra nord e sud e può dirlo a ragion veduta. Sono convinto della contrapposizione fra la città (e la provincia molto urbanizzata) dove abita tanta gente e le cose corrono veloci, intercambiabili, e l’Appennino dove i ritmi sono lenti e sempre più rarefatti. Mi rendo conto che chi è cresciuto in città fa molta fatica a pensare di vivere in un posto isolato; viceversa chi è cresciuto su, vive la città come un posto dove non si trova bene. Quindi sì, questa contrapposizione è molto vera, palpabile, sono sistemi completamente diversi. Non solo per la lentezza con cui puoi guardare la natura, c’è dietro proprio una differente antropologia. Un esempio? In montagna devi spostarsi in macchina per fare qualsiasi cosa. In città uno si illude di avere il centro del mondo a portata di mano, che la velocità con cui le cose gli scorrono addosso voglia dire che può comprendere tutto. Ecco, per me queste sono alla fine delle grandi illusioni.

Di recente Walter Siti ha criticato l’uso improprio della prima persona e la moda dell’autofiction. Che ne pensi?

Forse è in atto la fase più stanca dell’autofiction. Che ha prodotto libri meravigliosi, basti pensare a Carrère e allo stesso Philip Roth. Il problema dell’autofiction nasce dal fatto che quando uno dice “io”, instaura un patto con il lettore che può avere un aspetto ricattatorio. È come se dicessi al lettore: credimi di più di quanto eri disposto a fare perché io ti dirò davvero ciò che è vero, ci metto la faccia, non ti sto mettendo davanti dei burattini. Detto ciò, sappiamo benissimo che ogni volta che usi un artificio tecnico, tu stai giocando con le parole, stai ottenendo un effetto. L’io sulla pagina non è mai l’io della persona, eppure va a introdurre nella testa del lettore un’identificazione diversa. Penso anche che prima o terza persona, passato, presente indicativo… ogni forma sia legittima se è la più adatta al tipo di testo che stai scrivendo, la più funzionale alla storia. Ma la mia prima persona, in questo caso, non ha la pretesa di dire “io”. Usando la voce di Giampiero, la differenza di punti di vista viene messa in gioco e diventa potente. Si creano una serie di tensioni fra i personaggi e le rispettive versioni dei fatti, dei non-detti, delle ambiguità. 

di Francesco Rossetti

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