Intervista a Olivia Corsini, modenese e parigina, protagonista di “Olmo e il gabbiano”

Provano il “Gabbiano” di Cechov, Olivia e Serge, quando scoprono di aspettare un bambino. Mica semplice per chi vive di teatro: e ora che piega prenderà quella corda sottile che tiene insieme la propria vita con il mestiere della rappresentazione? Ridotto all’osso, è questo il succo di “Olmo e il gabbiano”, film divertente e commovente insieme, in bilico tra fiction e documentario, che dopo due anni di premi e partecipazioni nei festival del pianeta, approda a Modena per inaugurare l’11 ottobre, alle ore 21, la stagione della Sala Truffaut. Alla proiezione sarà presente Olivia Corsini, la protagonista del film, modenese ma trapiantata a Parigi da tanti anni, con alle spalle una pluriennale e intensissima esperienza nel Théâtre du Soleil, diretto da Ariane Mnouchkine.

Olivia, come ha preso forma l’idea del film?
Serge Nicolaï e io (nella foto) abbiamo incontrato Petra Costa a San Paolo in Brasile durante la tournée di uno spettacolo del Teatro du Soleil. Ci è stata presentata come giovane regista di talento. Ci ha fatto vedere un suo film – “Elena” – in fase di montaggio. Siamo rimasti molto colpiti dalla profondità, dall’intelligenza e dall’originalità di questa opera, abbiamo riconosciuto la voglia comune di investigare dell’intimo di un universo psicologico. In fretta si è fatta strada la voglia di lavorare insieme! Petra ci ha proposto di cominciare a immaginare un adattamento di “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf, raccontare la giornata di una donna, con l’idea di mescolare realtà e finzione.

Che tipo di fiducia, empatia si è creata con la regista?
Il lavoro è cominciato con delle vere e proprie interviste a me e Serge, che Petra registrava. Ha cominciato a studiare la materia del film interessandosi a noi, ai nostri pensieri, alla nostra storia fatta di migrazione, teatro, viaggi, amore, avventura. Questo modo di lavorare ha fatto sì che Petra e Lea Glob (l’altra regista danese) cominciassero a conoscerci davvero. Credo senza presunzione che questo film sia nato perché Petra ha in un certo senso amato la donna imperfetta che sono e ci si è riflessa. È molto giusto parlare di empatia, per un lavoro di questo tipo la fiducia è fondamentale perché se sei spinta ad affrontare temi tabù per confidarti e svelare i pensieri più profondi, allora è necessario uno sguardo benevolo dall’altra parte della camera.

Fare il film è stato un atto di coraggio?
È stato un’opportunità per dare attenzione a un’esperienza molto importante che stavo attraversando. Probabilmente se questo progetto non ci fosse stato non avrei tenuto un diario e avrei lasciato molte domande inespresse senza riuscire a trasporre, a trasformare, a sublimare in gesto artistico un momento di felicità, ma anche di difficoltà e conflitto.

Come hai vissuto la gravidanza tra vita reale e il film?
Credo che il film mi abbia aiutato a trovare un equilibrio perché la sensazione durante questi nove mesi può essere quella di essere tagliata fuori dalla vita reale, soprattutto se come nel mio caso sei costretta a stare ferma in casa. Paradossalmente il mettere in scena dei momenti della gravidanza mi ha fatto prendere coscienza in maniera più concreta dell’esperienza che stavo vivendo. L’esperienza del raccontare, del raccontarsi è necessaria per sentire la realtà. Facciamo arte, facciamo teatro per confermare a noi stessi che siamo vivi.

Sei stata anche co-sceneggiatrice, oltre che attrice?
In parte sì, perché le voci fuori campo sono state da me scritte. E i momenti di finzione, in cui abbiamo dovuto costruire una sceneggiatura più solida, sono stati scritti insieme da me Petra, Lea e Sergio. Poi una grande parte della storia è stata “scritta” grazie al montaggio in cui noi non siamo intervenuti.

A film finito, cosa provi rispetto a questo film?

È stato uno shock! La grande abilità di queste due donne è stata quella di spingermi delicatamente a dire cose che sentivo ma non avrei osato dire. Mi hanno aiutato a mettere in forma e a creare con il materiale emotivo più intenso che avevo tra le mani. Ora che questa storia viaggia nel mondo ed è riconosciuta come personale e universale, sento un grande orgoglio. Siamo orgogliosi di aver fatto un film intimo e politico che ridà il ruolo di protagonista alla madre, alla donna durante la creazione.

Vivi a Parigi da tanti anni: come ti trovi?
Ci abito da quasi 14 anni e il mio legame si fa sempre più intenso. È il teatro dei miei momenti di gioia, ma anche di crisi della vita adulta. Una città in cui è difficile vivere ma si cerca ‘une douceur de vivre’, malgrado le condizioni a volte dure di una metropoli.

Dopo gli attentati, la percepisci cambiata?
Siamo tutti più a fior di pelle e attenti, ma si è creata una bella solidarietà e collaborazione tra le persone. Forse è una sensazione mia, ma mi sembra di essere più vicina agli altri in questa città che mi sembrava tanto individualista.

Quanto sei legata a Modena?
Beh, è la città in cui sono cresciuta, dove il mio senso artistico ed estetico si è formato. So che è grazie a Modena se non posso vivere in un posto brutto, con una brutta architettura, in cui si mangia male e in cui le persone non si toccano quando parlano. Quando sono a Modena, rido più forte, parlo più forte, canto più forte. Se ho questa sete di libertà e di felicità, è anche perché questa città mi ha insegnato l’importanza dei piaceri e della gioia.

Di Francesco Rossetti

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