Mauro Forghieri, l’uomo delle Ferrari

Non è solo un’icona della leggenda Ferrari, un patrimonio della storia e dell’identità modenese. A 82 anni ben portati, Mauro Forghieri rivela anche un’autoironia e un’attitudine amichevole non così comuni. Sotto la sua guida tecnica il “cavallino rampante” ha vinto complessivamente 6 titoli mondiali Marche sport prototipi, 54 Gran Premi iridati, 7 titoli mondiali costruttori e 4 titoli mondiali piloti… insomma, un palmarès che colloca Forghieri tra i più grandi progettisti di tutti i tempi.

Ingegnere, quali sono le sue origini familiari?
La nostra era una famiglia di socialisti, vivevano spesso in Francia, può ben capire che prima della guerra esser socialisti non fosse una cosa divertente. Mio padre aveva anche lui un nome francese: Reclus. Era un uomo di Ferrari. Prima della guerra fu un gruppo di persone – mio padre, lo stesso Ferrari, Giberti, Luigi Bazzi – a costruire tutti i componenti del motore dell’Alfetta Alfa Romeo. Li progettarono e realizzarono a Modena, a casa di Ferrari.

E lei, a quale età è scoccata la passione per i motori?
Quando ero bambino – avrò avuto sui 10 anni, era appena finita la guerra, una gran miseria in giro – ero particolarmente innamorato delle navi a vela dei pirati, sulla scia delle suggestioni di Salgari, Mompracem, etc. C’era un falegname amico che mi regalava il legno e io, con il coltello, la lima e i vari strumenti, mi esercitavo a costruire. Poi, pian piano, incominciai ad innamorarmi dei motori aeronautici: turbine, quelle cose lì. Mi aveva colpito una frase americana che prendeva ad esempio il bumble bee, cioè il calabrone, che ha un corpo grosso e ali piccole. Diceva: “lui non è informato delle nuove teorie aerodinamiche, non potrebbe volare visto il carico alare che ha. Ma siccome lui non lo sa, vola lo stesso”. Mi venne l’idea di andare a lavorare alla Northrop.

Poi però finì alla Ferrari…
Quando mi laureai in ingegneria meccanica a Bologna, Ferrari a un certo punto disse a mio padre: ‘ma cosa perde tempo tuo figlio, portalo qui che intanto impara’. Mi mise insieme a Vittorio Jano e a Bazzi, si figuri quale ‘storia’ trovai di fianco a me. Una volta lì, mi son dimenticato di tutto il resto e sono diventato un uomo da corsa. Ma sono stato fortunato. Anche quando in seguito un dirigente della Ford mi offerse di andare in America, dissi di no, perché stavo bene in Ferrari, avevo una famiglia con tre ragazzi. Allora trasferirsi non era così semplice come lo è adesso. Oggi dici ‘vado in California’ e sembra di andare qui di fianco al duomo.

Com’era il rapporto con il Drake?
Dialettico. Mi è sempre stato vicino anche nei momenti di difficoltà, mi ha sempre sostenuto, anche quando probabilmente io sbagliavo. Del resto chi fa sbaglia, chi non fa non sbaglia mai. Io ero sempre un po’ troppo proiettato verso il futuro, così come i miei meccanici e progettisti. Quando realizzavamo soluzioni un po’ troppo all’avanguardia, che magari non funzionavano, Ferrari non ci metteva al muro. Diceva: l’avete fatto con onestà, fa parte del nostro patrimonio di tentativi, di sperimentazioni.

Ferrari non doveva avere un carattere facile…
Gli ho voluto bene, lo considero una pagina estremamente positiva della mia vita, anche se è stato un periodo di sacrifici enormi. Ora dicono che quello è stato il periodo d’oro della Ferrari e mi fa piacere avervi partecipato. Ricordo che lo chiamavano ‘il matto’ perché prima della guerra guidava le auto da corsa per le strade di Modena, anche perché non ne aveva altre. Mi disse: tutti a Modena hanno un soprannome, vedrai che lo daranno anche a te.

E il suo soprannome divenne ‘Furia’, giusto?
Sì, ma non me l’hanno dato in Ferrari, semmai lì me l’hanno cambiato. Di soprannome ne avevo già uno, quando giocavo a pallacanestro. Ero il capitano della squadra e mi arrabbiavo quando gli altri non facevano i movimenti giusti. Mi chiamavano “Sformetti”. In Ferrari dovevo gestire grandi meccanici e grandi piloti. Facevo vedere che mi arrabbiavo, ma c’era anche del teatro.

Un buon pilota è sempre anche un buon collaudatore?
Sfortunatamente non sempre. Ne ho avuti alcuni che erano grandi collaudatori. Uno di questi era Chris Amon, neozelandese, scomparso la scorsa estate. Non ha mai vinto un Gran Premio, ma era capace di selezionare decine e decine di gomme, indirizzando gli ingegneri sulla buona strada. Lauda era un grande collaudatore, Jody Scheckter lo diventò. Persino Gilles (ndr. Villeneuve) nelle prove non era lo stesso che si vedeva in corsa.

E com’era Villeneuve quando correva?
Per lui esisteva solo la gara. Ha sempre corso al di sopra di quelle che erano le possibilità della maccchina, era una forza della natura. Puntava tutto sulla corsa in se stessa, non al campionato. Per questo probabilmente non sarebbe mai diventato campione del mondo, perché non faceva calcoli.

Un ricordo di Lorenzo Bandini, morto 50 anni fa?
Era molto più che un pilota, un amico. Dopo il disastro nel quale perse la vita, si comprese che 100 giri a Montecarlo erano una follia. Quando Bandini uscì di pista, la macchina fu sventrata da un corrimano che serviva per scendere su una barca. Da non credere! Montecarlo ridusse a 70 giri e cercò di diventare una gara sicura.

Segue ancora oggi la Formula Uno?
Non vado più sulle piste, mi rifiuto. Guardo le corse in tv, le registro, le riguardo in slow motion, per me è fondamentale tenere allenata la mente, cogliere al volo alcune indicazioni.

di Francesco Rossetti

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