Storie di hockey su pista e pattinaggio a rotelle

La bella notizia è questa: a settembre sono già cominciate le attività dell’Amatori Modena 1945. All’incirca una ventina di bambini si divertono e apprendono piano piano i segreti di uno sport sano come l’hockey su pista e il pattinaggio a rotelle, lontano dal clamore spesso inquinante dei media. Un segnale in continuità con la gloriosa storia della società che è stata omaggiata, durante il recente Festival della Filosofia dedicato al tema del’agonismo, con una bella mostra curata da Giovanna Gentilini e Nicoletta Moncalieri.
Le due artiste visive hanno anche raccolto una preziosa serie di testimonianze di atleti, pattinatrici, dirigenti (e semplici amatori) che hanno dato lustro a Modena, per esempio con i due titoli italiani del 1957 e del 1960.

Luciano Lodi, portiere della squadra, con la memoria, torna indietro addirittura al 1946: “dovevamo andare a Bologna a disputare una partita e non avevamo i soldi per acquistare il biglietto del treno. Decidemmo di andarci percorrendo la via Emilia sugli skàttini. Un tifoso di nome Gregor ci seguiva in bicicletta, e io, ogni tanto, montavo sulla canna per riposarmi. Arrivati a Bologna, giocammo con la squadra del Sempreavanti e la partita finì 5 a 5.
Tornai a casa con un occhio nero che mia madre curò facendomi degli impacchi con una bistecca di cavallo. A Modena all’inizio pattinavamo in una sala dell’Accademia che aveva il pavimento di mattonelle e lì giocavamo con dei manici di scopa e una palla fatta con gli stracci. Poi andammo a giocare sulla pista da ballo del Rifugio Verde.
Dopo il bombardamento della piscina comunale, molti di noi andarono a vuotare le vasche dai detriti e il fondo in cemento divenne la nostra pista di gara. Quando a Modena iniziarono a costruire il Palazzo dello Sport, io e Guido Braidi, che eravamo appassionati, andavamo tutti i giorni a vedere il procedere dei lavori, abbiamo visto salire i muri mattone per mattone. Quando poi hanno fatto la pista all’aperto, eravamo fuori di noi dalla felicità”.
In effetti, intorno agli anni ‘50 lo sport rotellistico raggiunse in Italia una notevole popolarità, dietro forse solo al calcio, al ciclismo e alla boxe.

Flaminio “Minio” Rinaldi, di ruolo, era un finalizzatore: “mi sottoponevano ad un allenamento speciale, solo per me, affinché io potessi tirare di prima. Terminato l’allenamento insieme agli altri verso mezzanotte, io restavo in pista fino all’una. Fornaciari e Bergonzini mi lanciavano a mano la palla e io la tiravo in porta. Non dovevo perdere tempo o pensare di dover saltare un giocatore o un altro, quello che dovevo fare era “tirare in porta”; mi dovevo trovare in quel punto lì e io c’ero sempre. Sai quante volte ho fatto avanti e indietro senza ricevere niente, però era lì che mi dovevo trovare”.

Franco Rio, il mister dei due scudetti, ricorda la partita del 1957 vinta dall’Amatori in casa del Novara (una specie di Juve dell’hockey, sospettata di venir protetta dagli arbitri): “a metà circa del secondo tempo di quella partita, un tiro del mitico Panagini aveva causato una mischia proprio davanti alla nostra porta, ma Marchetto ne uscì fuori con la palla sulla stecca; contemporaneamente scattarono Tavoni a destra e Rinaldi a sinistra; Marchetto finse il passaggio a Tavoni spiazzando il terzino novarese, mentre in realtà lanciò un lungo rasoterra per Rinaldi che, in corsa, fulminò il portiere del Novara davanti a un pubblico sbigottito”.

Norberto “Puccio” Moncalieri riporta invece un ricordo del 1970, con la nazionale ai Mondiali in Argentina: “a San Juan giocammo un confronto diretto con la Nazionale argentina per la conquista del terzo posto. Tutti tifavano, ovviamente, per l’Argentina e il rumore era assordante. A pochi minuti dalla fine della partita l’arbitro ci assegnò un rigore. In quel momento ero in panchina, un rigore che nessuno voleva avere la responsabilità di tirare, ovviamente per l’importanza che aveva.

Mi alzai e dissi al commissario tecnico: tiro io! Mi chiese se me la sentivo e io risposi: me la sento, ed entrai in campo. A un certo punto si fermò tutto, dagli spalti venne giù ogni cosa: lattine, giornali… L’arbitro dovette sospendere il gioco. Fece annunciare dagli altoparlanti che la partita non poteva ricominciare, ma ci vollero ben venti minuti prima che la situazione si calmasse e che io potessi andare sul rigore. Francesco Fontana, che era portiere della Nazionale e mio compagno di club, attraversò tutta la pista per venirmi vicino e in dialetto mi disse: “metti ghela là”. Lui sapeva che cosa intendeva dire e io pure, perché il rigore lo battevo sempre all’incrocio dei pali, alla sinistra del portiere che in gergo si chiama la mia mattonella. Mi misi lì con tutta la mia forza, e non nascondo che chiusi anche gli occhi, perché ero certo che l’avrei tirato proprio lì. Non sentii neppure il fischio dell’arbitro, tanto era il rumore e aprii gli occhi solo a palla in rete. Provai un’emozione grandissima…”

di Francesco Rossetti

WP-Backgrounds Lite by InoPlugs Web Design and Juwelier Schönmann 1010 Wien