Tre giorni di pace e musica: Roberto Menabue racconta il Festival di Woodstock

Dal 15 al 18 agosto del 1969, a Bethel, piccola località rurale dello stato di New York, si svolse il Festival che più di ogni altro è rimasto nell’immaginario collettivo come il coronamento della controcultura hippie, oltre che rampa di lancio per una generazione di grandi musicisti. Stiamo parlando, naturalmente, del Festival di Woodstock, di cui quest’anno ricorre il cinquantennale. “Woodstock è stato molto di più di un semplice festival musicale – racconta Roberto Menabue, titolare del negozio Dischinpiazza – è stato il coronamento del sogno degli anni 60, dell’idea che fosse possibile un tipo di società diversa da quella comunemente intesa, un mondo di pace, amore e musica, come dimostrava la convivenza pacifica di queste centinaia di migliaia di ragazzi, ascoltando musica, stando in compagnia e facendosi qualche canna. Un’idea che era nata nel 1967 in California con il movimento del ‘Flower Power’ e che con Woodstock arriva al suo apice”.

Dal punto di vista musicale, invece, Woodstock cosa ha significato?
Musicalmente parlando, forse, non fu proprio il Festival più bello dell’epoca, quello di Monterey del 1967 e, probabilmente, anche quello dell’Isola di Wight del 1970 gli furono superiori. La grandezza di Woodstock, per quanto riguarda la musica, fu il numero esorbitante di musicisti che vi parteciparono, con il coinvolgimento di artisti di entrambe le sponde americane, visto che Bill Graham portò tutti i californiani, imponendone anche alcuni allora poco noti come i Santana. E poi arrivarono alcuni inglesi, poco conosciuti negli Stati Uniti, come Joe Cocker, uno che sull’esibizione di Woodstock ha costruito una carriera.

Quali sono, secondo te, le esibizioni più memorabili?
Di certo la “With a little help from my friends” di Joe Cocker. Poi i Ten Years After e Jimi Hendrix, che suonò l’inno americano con la chitarra distorta che voleva ricordare le bombe che cadevano sul Vietnam. Ma anche i set di artisti minori sono rimasti nella storia, come Country Joe & The Fish, la ‘Freedom’ di Richie Havens o il set degli Sly & The Family Stone, l’unico gruppo di neri che partecipò e che trasformò l’ambiente in una sorta di discoteca a cielo aperto ante litteram.

Spesso si dice che Woodstock abbia rappresentato il culmine, ma anche l’inizio della fine della cultura Hippie…
E’ vero. Da un lato gli episodi che si verificarono in quei giorni o poco più avanti, come la strage di Bel Air di Charles Manson, che era un depravato mentale, ma era anche a capo di una delle tante comuni nate in California sulla scia del ‘Flower Power’, o il concerto degli Stones ad Altamont, una sorta di Woodstock maledetta. Secondo me, però, quello che da maggiormente l’idea di questo aspetto è il fatto che, proprio in quel momento, l’industria musicale capì le reali potenzialità della musica – del rock in particolare – ed entrò a piedi pari in quella che, fino a quel momento, era stata considerata soltanto una delle grandi arti del ‘900.

In Italia Woodstock arrivò più tardi, con il film del 1970…
E’ vero, nel periodo del concerto se ne parlò pochissimo e in Italia lo si scoprì soltanto un anno più tardi con il film, che tra l’altro aveva, come aiuto regista, un giovanissimo Martin Scorsese. L’unico a capirne l’importanza fu Furio Colombo, che era inviato negli Usa e girò alcune immagine del Festival, intervistando alcuni ragazzi. Nessuno in Rai capì però l’importanza dell’evento e quel servizio fu mandato in onda solo molto più tardi.

 

di Giovanni Botti

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