Claudio Nizzi, Tex Willer e i romanzi gialli ambientati in Appennino

foto © Serena Campanini

Classe 1938, segno zodiacale vergine, Claudio Nizzi è un maestro del fumetto italiano. Non si contano le storie che ha ideato e sceneggiato in quasi 60 anni di carriera. Il suo nome è legato a Tex Willer, ma ha scritto anche racconti e romanzi: gli ultimi sei sono ambientati nell’Appennino. È qui, tra Modena e la montagna modenese, che Nizzi ha vissuto perlopiù, fatta eccezione per un decennio giovanile a Roma e assidue frequentazioni milanesi. Ma il suo immaginario lo ha portato dappertutto, un po’ alla Salgari.

Nizzi, come mai è nato in Algeria?
All’epoca l’Appennino era terra di emigrazione. Mio padre trovò da lavorare per una ditta italiana a Sétif dove costruirono il Museo Romano. In Algeria ho vissuto solo i primi nove mesi, poi rientrammo a Fiumalbo dove ho vissuto fino ai quindici anni. Era un paese ancora molto vivo, non come ora che si anima solo d’estate con i turisti. Quella fiumalbina è la parte di vita che alimenta i miei romanzi. Poi sono andato a Roma.

A far cosa?
Ho studiato da geometra, senza voglia di fare il geometra, solo per accontentare mio padre. L’impatto non fu semplice, per uno che veniva da un piccolo paese. Ma era una Roma bella, ancora a misura d’uomo, anni ’50. Sono grato di averci vissuto. Andavo a scuola al Portico d’Ottavia, vicino all’Isola Tiberina.

Poi il trasferimento a Modena…
Ci trovai la morosa e ci abito dal 1962, però sempre vivendoci con la testa o a Milano o a Roma.

Torniamo a Fiumalbo: quanto hanno contato quegli anni?
Moltissimo. Tutto il mio bagaglio di immaginario a cui attingo, si è formato in quegli anni di adolescenza. Quando ho voluto scrivere qualcosa di mio, – stanco di tanta America fasulla e mitizzata in chiave italiana – ho ambientati i miei romanzi a Fiumalbo.

Quando si è accorto che trovava congeniale la sceneggiatura dei fumetti?
Ho sempre trovato facile scrivere per i fumetti. Oggi ci sono molte scuole, ma mi domando: cosa vuoi insegnare? Io ho cominciato per caso: scrivevo novelle per “Il Vittorioso”, celebre rivista degli anni ‘50. Il direttore mi disse: perché non provi a scrivere fumetti? E mi consegnò una sceneggiatura: ecco, si fa così. E da lì non mi sono più fermato. Insomma, non ho avuto bisogno di alcuna scuola. Quel che conta sono le idee. Ed è impossibile insegnare come fare a farsele venire. Leggere: quello è l’unico consiglio valido.

Com’è approdato a Tex Willer?
Non lo leggevo da ragazzo. Leggevo altro: Il Piccolo Ranger, Il Piccolo Sceriffo. Negli anni ’70 cominciai a scrivere un western per “Il Giornalino”: “Larry Yuma”. Sergio Bonelli si accorse che me la cavavo bene. Sondò una mia disponibilità, ma non avevo tempo: fino al 1980 ho fatto anche l’impiegato, alla Fiat Trattori, qui a Modena. Scrivevo di sera e nei weekend. Poi mi sono liberato e la prima sceneggiatura per Bonelli riguardò ‘Mister No’.

Com’è riuscito a far suo il mondo di Tex?
Non è stato difficile. Ho cercato di imitare al meglio le espressioni usate dal vecchio Bonelli, anche la struttura della frase. All’inizio mi chiesero di non firmare. Tex era un meccanismo a orologeria e rendeva molto: guai a guastare il meccanismo. Quando uscì la mia prima storia, i lettori pensavano fosse il vecchio Bonelli a esser ringiovanito.

Il vecchio Bonelli com’era?
Lo incontrai una volta sola: non parlammo di Tex, mi chiese solo se mi piacevano le donne. Era un tipo bizzarro: basso di statura, per questo si faceva fotografare sempre dal basso.

Parliamo dei romanzi nell’Appennino…
Il primo s’intitola “L’epidemia”: se uscisse oggi, tutti penserebbero al Covid. Invece l’epidemia era che tutte le donne del paese hanno un risveglio dei sensi micidiale. E questo crea turbamento. Poi ci innesto sopra un delitto e diventa un giallo.

Il genere giallo le piace?
Non sono un fanatico, ma penso offra molte possibilità di racconto. A patto che sia breve, conciso, come quelli di Agatha Christie e Simenon. Ne ho scritti sei. Gli ultimi sono pubblicati dall’editore pavullese Adelmo Iaccheri. L’ultimo è ambientato a Vicolo Babbini, e mi dicono che ora la gente ci va a farsi i selfie.

Mi racconta l’esperienza del Texone realizzato da Magnus?
Un’avventura incredibile. Ci mise sette anni a disegnarlo e morì all’ultima tavola. Conteneva una nuvoletta scritta da lui e messa in bocca a Tex che dice: “fanculo Magnus!”. Viveva in un albergo dove lo chiamavano il professore. Quando lo chiamavo sentivo la receptionist con il suo accento romagnolo: ‘professore!’.

Quanto conta la sua emilianità?
Devo dir la verità, me ne sento poca addosso. Ormai il mondo è globale. Non ho questo culto, anche se questa è una regione dove mi trovo bene.

Perché chi legge Tex dall’infanzia, poi prosegue anche nell’età adulta?
Un po’ per l’affezione verso l’infanzia, e poi subentra anche il fenomeno del collezionismo.

Come ha vissuto la pandemia?
Ne ho risentito poco. Ora sono vaccinato. Però anche sotto lockdown non ho mai smesso di far le mie passeggiate al mattino.  

di Francesco Rossetti

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