Il senso di John Malkovich per il teatro. L’attore compie 70 anni

John Malkovich sembra fatto apposta per il cinema. Ha una faccia, una mimica, una presenza, una voce, un incedere che lo rendono sempre significante davanti all’occhio della camera. Eppure è un attore di teatro, soprattutto. Viene dal teatro. In fondo è la dimostrazione lampante che un attore dotato può cavarsela benissimo sia sulle assi del palcoscenico che davanti alla macchina da presa. Gli strumenti espressivi saranno diversi, ma la palestra recitativa è la stessa.

“True west” di Sam Shepard, “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller e “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams: ecco tre esempi di classici del teatro americano in ognuno dei quali Malkovich ha marcato un segno negli anni ’80. Che sono anche gli anni della sua rivelazione nella scena cinematografica come attore di culto, per una carriera che ancora prosegue tuttora in modo molto fortunato e con un considerevole tasso di libertà nelle scelte.

Nato nel sud dell’Illinois il 9 dicembre 1953, mister John compie oggi 70 anni. L’occasione del compleanno ci permette di tornare su quella generazione di attori americani che emerse sulla scena all’inizio degli anni ’80:  William Hurt, Mickey Rourke, tra gli altri, che con Malkovich condividono l’aver raggiunto il ‘successo’ intorno ai 30 anni, non prima, e la possibilità di incarnare un ricambio generazionale rispetto agli attori di culto del decennio precedente.

photo Sandro Miller

 

Malkovich viene da una famiglia di cultura umanistica: il padre (di lontane origini croate) è un editore, la madre una giornalista. Non a caso due dei suoi primi ruoli al cinema lo vedono proprio nei credibili panni di reporter (In “Eleni” di Peter Yates e in “Urla del silenzio” di Roland Joffe). Crescendo si appassiona al teatro, lo pratica e lo studia, attratto dalla drammaturgia contemporanea. Uno dei suoi numi tutelari è Harold Pinter, potremmo anche definirlo un attore pinteriano. Nel 1976 lascia il College universitario prima di concludere gli studi e compie il gran salto trasferendosi al nord, a Chicago. Entra subito nella Steppenwolf Theater Company, fondata due anni prima da Gary Sinise e altri giovanissimi aspiranti teatranti – nel nome un evidente omaggio al “Lupo della steppa” di Herman Hesse -, e ne diventa uno dei leader. È un gruppo di amici, in sostanza: affiatato, dinamico. Seguono almeno sei anni di produzioni, messinscene, lavoro, sperimentazione espressiva, crescita della fiducia nei propri mezzi. Quando nel 1982 con “True west” la compagnia di Chicago, forte di un consenso tuttavia ancora solo locale, tenta un secondo grande salto a New York, è un successo clamoroso. La leggenda vuole che Malkovich abbia portato con sé solo il bagaglio per quattro giorni. Ma la sua interpretazione del disturbato e pericoloso Lee fa sensazione, generando uno spettacolare passaparola nell’ambiente che conta. Tra i primi a intercettare la novità sono Robert Duvall e Susan Sarandon. A loro volta spargono la voce: “c’è una compagnia con attori eccezionali che vanno assolutamente visti”. La pièce resterà in cartellone fino al 1984 per 762 repliche. Una ripresa televisiva dello spettacolo è recuperabile su YouTube.

Per Malkovich si aprono le porte del cinema. Inizialmente non parti da protagonista, com’è normale, e poi sta perdendo rapidamente i capelli e ha più l’aspetto di un caratterista che della star emergente alla Tom Cruise. Va in Thailandia per interpretare un fotogiornalista in “Urla del silenzio” e soprattutto trascorre tre mesi in Texas per “Le stagioni del cuore” di Robert Benton nel ruolo di un cieco. La sua performance è talmente credibile che gli vale una nomination all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista. Ma il teatro va di pari passo. Nel 1984 interpreta Biff accanto a Dustin Hoffman in un attesissimo allestimento di “Morte di un commesso viaggiatore”. È un nuovo successo, anche personale, per Malkovich. Le scene tra lui e Hoffmann (all’epoca al top della sua fama) funzionano divinamente, la sobrietà di Malkovich contrasta con l’iper-emotività del Willy Loman hoffmaniano,  creando una dinamica irresistibile che dà energia alle scene. La pièce diventerà un film diretto da Volker Schlondorff, conservando intatta la sua forza.

Malkovich a quel punto ha 31 anni. La sua fortuna è di farsi trovare pronto. Ha alle spalle un affilato percorso teatrale legato al gioco di squadra e allo sviluppo delle proprie capacità espressive. All’inizio della sua carriera cinematografica emerge in ruoli di figlio pensieroso, riflessivo della buona borghesia americana. È il caso di Biff  nel già citato “Morte di un commesso viaggiatore”, ma anche di Tom ne “Lo zoo di vetro” nella raffinata versione diretta da Paul Newman. Ma non si costruisce alcun cliché.

Malkovich darà sempre dimostrazione nella sua lunga carriera di essere colto e di  scegliere con oculatezza i progetti, cercando sempre di non ripetersi, di non farsi etichettare. Quando nel 1985 Sam Shepard gli offre la parte principale della sua nuova, anch’essa attesissima, nuova commedia “Menzogne della mente”, Malkovich rifiuta. Certo ora può permetterselo perché il lavoro non gli manca, ma in realtà trova troppa somiglianza con “True west” e non vuole ricalcare personaggi già digeriti. Questa autonomia gli consentirà nel tempo di affrontare con leggerezza anche l’avventura di “Essere John Malkovich”, dove la sua figura viene cristallizzata già nel titolo, ma senza ingabbiamenti, perché la sua identità di attore è sufficientemente imprendibile e sfaccettata.

Nel frattempo Malkovich prosegue la sua traiettoria di artista, mantenendo un’aria cool, centellinando le interviste. Continua a fare teatro (anche questa estate a Napoli, un altro classico della drammaturgia contemporanea, “Nella solitudine dei campi di cotone” di Bernard-Marie Koltes) e rimpiange la recente scomparsa dell’amico Julian Sands, perso nelle montagne del sud della California. Nel 1990, a conclusione di un decennio già folgorante per la sua carriera (basti solo pensare al successo in “Le relazioni pericolose” di Stephen Frears) realizza uno dei suoi sogni: fare un film con Bernardo Bertolucci, “Il tè nel deserto”. Diciotto anni prima un Malkovich non ancora ventenne, racconta di aver fatto un centinaio di chilometri (o forse miglia) in macchina, nel cuore del midwest, solo per andare a vedere “Ultimo tango a Parigi” e restarne folgorato.

di Francesco Rossetti

WP-Backgrounds Lite by InoPlugs Web Design and Juwelier Schönmann 1010 Wien