“Lazarus”, con Manuel Agnelli nella mente di Bowie. L’intervista al leader degli Afterhours

A una Modena in cerca di big event artistici e musicali, Emilia Romagna Teatro offre il suo bel contributo con “Lazarus”, un viaggio nella mente e nella musica di David Bowie. Non chiamatelo musical, però, è un’opera rock, e viene facile pensare a “Tommy” e “Quadrophenia” degli Who. Dopo il debutto in Romagna, lo spettacolo approda al Teatro Storchi dal 29 marzo al 2 aprile. Valter Malosti, che lo dirige assemblando un cast e una crew piene di talento ed energia, ha ottenuto l’esclusiva italiana del lavoro di Bowie e Enda Walsh, e ha voluto come protagonista Manuel Agnelli (foto), il carismatico leader degli Afterhours. “Pur nelle vesti di artista pop”, spiega Agnelli, “Bowie è sempre stato anche un personaggio divisivo che non aveva paura delle contraddizioni e di molestare l’opinione pubblica. In questo senso, forse Valter non mi ha scelto a caso. E quando mi ha proposto il progetto, non ci ho pensato molto. Ho detto subito di sì”.

Manuel, cosa rappresenta Bowie per te?
Per me è tutto, nel senso che fin da ragazzino lo ascoltavo. A 17 anni ero in giro per le strade di Londra con uno di quei radioloni che si chiamavano ghettoblaster. A 19 ero a Berlino con la mia fidanzata tedesca e con “Heroes” nelle orecchie imitavamo i protagonisti di “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Per me è un cerchio che si chiude, ma anche un sogno che si realizza. Ho appena compiuto 57 anni, per un artista rock a questa età è raro riuscire a trovare nuovi territori, rinnovarsi e arricchirsi.

Sul palco interpreti 18 canzoni del Duca Bianco: sono pezzi difficili?
Sono melodie per me molto naturali, Bowie è una parte del mio dna musicale. Le ho assorbite nel tempo, non devo mettermi al pianoforte a studiarmi le note. Sono canzoni che conosco così bene che anzi forse il rischio è darle per scontate. Ho provato a uscire dalla mia passione per Bowie e a riascoltarle. Sì, tecnicamente sono difficili, ma io sono bravissimo (ride, ndr).

Bowie ti ha influenzato anche come artista a tutto tondo?
Sì, anche a livello attitudinale rispetto a come muoversi nel mondo della musica, dello spettacolo e della comunicazione. Bowie rappresenta il mistero: come altri della sua generazione (Iggy Pop, Lou Reed) ha giocato molto su quello che noi non sapevamo di loro. Il fatto che non ci fosse internet alla fine degli anni ‘70 e che lui e Iggy Pop andassero a Berlino a viversi un’esperienza che chissà com’è stata, per me era incredibile. Nulla batte l’immaginario, non c’è Instagram che regga il confronto con la tua fantasia. Poi ci sono cose che mi accomunano al personaggio di Newton: per esempio il trovarsi in viaggio, lontano dalla famiglia vissuta come un porto sicuro, un momento di felicità, mi appartiene.

Come ti sei trovato a recitare?
È un po’ un salto nel vuoto, è la prima volta che recito a teatro. Nella vita lo faccio sempre. Però mi sono trovato bene, perché Valter è riuscito in modo magistrale a mettermi subito a fuoco rispetto al personaggio. È fondamentale sentirsi quella persona sul palco, avvertire affinità. Abbiamo lavorato lasciando le porte aperte, forse grazie al fatto che non ho una tecnica teatrale. Non sono io che mi mangio il personaggio, ma è il personaggio che si mangia me. Non diventerò Carmelo Bene, ma sono sicuro di riuscire a trasmettere emozioni che è in fondo quello che sto cercando di fare da più di quarant’anni.

Torniamo a Berlino: cosa ti ha lasciato quel periodo?
Mi ha lasciato una testimonianza di possibile alternativa sociale. Oggi so che Berlino Ovest in realtà era una sorta di parco dei divertimenti da mostrare a quelli dell’Est. Ma funzionava. Il primo giorno andai a Kreuzberg, allora il quartiere degli artisti, e una ragazza mi affittò una stanza a 10 marchi al mese, quasi niente. C’era un bar vicino casa dove potevi incontrare Blixa Bargeld o qualcuno dei Bad Seeds, il gruppo di Nick Cave. C’era un’idea di libertà sociale vissuta con molta responsabilità.

In Lazarus c’è il tema della morte, dello scorrere del tempo: come ti confronti con queste questioni?
Bowie è stato un esempio anche in questo: sempre attivo, considerando che tutto quello che ti succede nella vita, anche la morte, fa parte del tuo percorso. In quest’opera c’è anche un’idea di trascendenza, a un certo punto c’è questa idea di universo, di non essere legati per forza a questa terra, ma a una cosa più grande. L’aspetto stimolante è che Bowie non offre un punto di vista monocolore, nell’interpretare l’aldilà. Lascia aperta questa porta e lui, del mistero, ne ha fatto uno stile di vita.

di Francesco Rossetti

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