Musica e Libri: Eric Andersen e il folk del Greenwich Village raccontato da Vites e Saetti

Benché sempre un po’ appartato rispetto allo show business, Eric Andersen (al centro nella foto) è uno dei più grandi cantautori americani del Novecento ed è tuttora in attività. La sua carriera è cominciata nei primi anni ‘60 a San Francisco per poi proseguire al Greenwich Village di New York, in compagnia di artisti-amici come Bob Dylan e Joni Mitchell. A questa figura carismatica, ma per molti aspetti misteriosa, Paolo Vites e Roberto Jacksie Saetti (rispettivamente a sinistra e a destra nella foto) hanno dedicato un libro “Ghosts upon the road”, la prima biografia mai scritta sul folk singer di Pittsburgh. A sua volta carpigiano, una profonda passione per la musica (anche per la pesca, oggi), Roberto Jacksie Saetti è appunto uno dei due autori del libro.

Roberto, quando hai sentito parlare per la prima volta di Eric Andersen?
Nei primi anni delle superiori, da ragazzo, mentre studiavo, o meglio facevo finta di studiare.

Ascoltavi già molta musica?
Sì, ed era stata una passione scattata a cavallo fra le medie e le superiori, legata a una folgorazione per Bob Dylan. Ascoltavo al buio i dischi di mio fratello e quello fu un vero e proprio imprinting che mi porto dietro nella vita. Per citare Springsteen, ti insegna più una canzone di tre minuti che un intero anno scolastico. Leggendo la prima biografia di Dylan, scritta da Anthony Scaduto, notai che si parlava di questo Andersen. Un ragazzone alto, spesso circondato dalle donne. A differenza degli altri, sembrava più interessato a una dimensione spirituale e intimista che all’impegno sociale, come usava in quegli anni. Mi misi alla ricerca dei suoi dischi.

Introvabili, immagino…
Non si trovavano da nessuna parte. A Carpi non ci provavi nemmeno. A Modena c’era Mati in via Farini. Proprio di fronte un mio carissimo amico – Dino della Casa – vendeva elettrodomestici, ma teneva anche un corner di ascolto musicale. Dovevi andare a Bologna da Nannucci e altri, oppure ti spingevi al nord, dal mitico Carù di Gallarate. Di Andersen era stato pubblicato solo “Blue river”, un album del 1972. Lo trovai e il primo ascolto fu folgorante, mi stese. Un connubio di armonia musicale e di profondità poetica nei testi. Sembravano canzoni scritte apposta per me.

Come scattò il desiderio di andarlo a conoscere di persona?
Nella seconda metà degli anni ’70 lavoravo (ma la parola è un po’ forte, forse meglio dire che mi divertivo) a Radio Bruno. Decisi di rintracciare Andersen. Non c’era internet, ma io andavo a intervistare quei pochi folk singer che capitavano allora in Italia. La prima domanda era, sistematicamente: hai notizie di Eric Andersen? Capitò che a Parma, nel 1979, venne David Bromberg in concerto. Lui mi disse che Andersen era in forma e viveva a Woodstock. Andammo alla Sip di Bologna a cercare il numero di telefono di questo signor Andersen, e, incredibile a dirsi, lo trovammo. Lo chiamammo dalla radio e fu proprio lui a rispondere.

Vi prese sul serio?
Pensò che eravamo dei deficienti, ma fu forse questa la nostra arma vincente. Percepì il nostro entusiasmo e l’amore nei suoi confronti. Organizzammo un contratto verbale e il 26 giugno 1980 arrivò in Italia. Andammo a prenderlo all’aeroporto di Milano e lui suonò due sere dopo, per la prima volta in Italia, a Formigine. Una data sold out. Poi ci siamo rivisti spesso. Sono andato a trovarlo sia a Woodstock che a Oslo, in Norvegia, dove nel frattempo si era trasferito. Sono anche stato testimone del suo quinto (e spero ultimo) matrimonio.

Eric e Bob Dylan sono ancora amici?
Molto amici. Dirò di più: ho avuto la fortuna di passare una mezzora in camerino con Dylan e Erik. A Oslo nel 1998. Lo stesso giorno avevo cucinato dei pessimi spaghetti per Lou Reed. Insomma, una giornata memorabile.

Perché avete scelto questo titolo per il libro: Ghosts upon the road?
Intanto è il titolo di uno dei suoi dischi fondamentali, quello che lo rivela di più. Poi, lavorando a questo libro, a me e Paolo Vites sono passate davanti tante persone nella memoria, figure che equivalgono davvero a “fantasmi lungo la strada”.

Dove si può comprare il libro?
Intanto voglio dire che lo considero un’operazione indipendente, un atto d’amore. La prima edizione è andata esaurita. Si può trovare da Dischinpiazza, in piazza Mazzini, a Modena, o lo si può richiedere direttamente a me, scrivendo a jacksie1956@gmail.com.

Una curiosità: come mai ti chiamano Jacksie?
È un soprannome che ho ereditato da mio padre. Dicevano che assomigliava a Jesse James, il fuorilegge, forse a un attore che lo interpretava in un qualche film western di tanti anni fa. A Carpi, poi, il nome si era trasformato in Jacksie. Ed è passato a me.

 

di Francesco Rossetti

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