Nella lotta contro la pandemia, il dibattito pubblico è concentrato in larghissima parte sui vaccini, ancora di più da quando è stato introdotto il Green Pass. Di terapie si parla poco, ma rappresentano una delle misure per combattere la malattia e salvare vite umane. A che punto sono le cure? Ne parliamo con la Prof. Cristina Mussini, Direttrice delle Malattie Infettive dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena.
Sin qui, quali sono i farmaci più usati? Quali quelli che sembravano promettenti ma hanno deluso? E quali, invece, si sono confermati efficaci?
“Questo virus è nuovo e, quindi, all’inizio si è provato tutto quello che funzionava in vitro, come per gli altri due coronavirus. Si usavano l’inibitore della proteasi di HIV, l’idrossiclorochina e molte altre terapie che però, mano a mano, sono state abbandonate perché non efficaci. Non si utilizzava, invece, il cortisone perché nella Mers (sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus) non aveva funzionato. In realtà, poi, studi del gruppo inglese Recovery hanno dimostrato come il cortisone sia un caposaldo della terapia, solo per pazienti ospedalizzati, però, e non a domicilio, dove invece peggiora la prognosi. La prima fase della malattia è legata alla viremia, la circolazione del virus nel sangue, mentre la seconda fase è legata alla risposta del sistema immunitario. Fin dalla prima ondata, nella seconda fase della malattia molti centri hanno iniziato a usare tocilizumab, un anticorpo monoclonale, perché avevano visto, per primi i cinesi, che era efficace. Questa efficacia è dimostrata da uno studio del gruppo Recovery e, adesso, lo standard di cura è iniziare con il cortisone e, in caso di non risposta, usare immuno modulatori, come il tocilizumab. Gli anticorpi si utilizzano su pazienti non vaccinati o che non hanno risposto al vaccino, con fattori di rischio per l’evoluzione negativa della malattia”.
Quali sono questi fattori di rischio?
“Il sovrappeso, l’età, il sesso maschile, il diabete, l’ipertensione, il tumore e malattie ematologiche. Di recente, Recovery ha evidenziato come anche in soggetti ricoverati, con una compromissione respiratoria non grave, quando il sistema immunitario non risponde, si possono dare, a dosaggio maggiore, gli stessi anticorpi monoclonali. Questi anticorpi non hanno senso su un paziente grave, mentre hanno senso nella fase viremica”.
A Modena si usava il tocilizumab, giusto? Ancora oggi?
“Sì, assolutamente. E’ una delle colonne portanti nella cura. Il 30% dei pazienti non risponde al cortisone e peggiora, con loro si usa il tocilizumab, grazie al quale, nel 70/80% dei casi, riusciamo a evitare la terapia intensiva”.
In tema di terapie, sentiamo parlare di due grandi categorie: anticorpi monoclonali, appunto, e antivirali. Può spiegare a chi ci legge la differenza? Come funzionano?
“Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi prodotti a livello industriale nei confronti di una proteina del virus, rafforza- no l’immunità in un paziente che non è in grado di produrli da solo. Gli antivirali sono farmaci che bloccano la replica- zione del virus”.
Sul fronte della ricerca più avanzata, invece, ci sono terapie interessanti?
“In questo momento a noi hanno chiesto di provare dei farmaci antivirali, ma vedremo. Per il resto, al momento, oltre ai monoclonali approvati da AIFA il 6 agosto, non c’è niente”.
Vuole dare un consiglio a chi ci legge?
“Quando si avvertono i primi sintomi bisogna rivolgersi al medico e fare un tampone. Se una persona non è vaccinata, ha più di 65 anni e dei fattori di rischio, a quel punto il medico deve indirizzare verso il percorso monoclonale, che a Modena inizia in Pronto soccorso. Se, nonostante i monoclonali, la malattia peggiora, occorre venire in ospedale, non si deve restare a casa”.
Le terapie non sono meno importanti dei vaccini, lei cosa ne pensa?
“Ritengo che sia molto importante fare queste precisazioni sulle terapie ma, persino noi che siamo uno dei centri in Ita- lia con la minore mortalità, abbiamo comunque un 15% di decessi, nonostante tutti i farmaci di cui le ho parlato. Que- sto per dire che conviene vaccinarsi e non contare troppo sulle terapie. Il vaccino protegge dalla malattia grave nel 95% dei casi. Leggere sui giornali che un vaccinato si è am- malato gravemente, può spaventare, ma ricordiamoci che parliamo di 5 persone su cento, gli altri 95 sono protetti. Nessuno ha mai detto che la copertura del vaccino fosse al 100%”.
di Patrizia Palladino