Qual è lo stato di salute dell’informazione oggi? Quali le prospettive? C’è da preoccuparsi oppure prevale l’ottimismo? Venerdì 18 novembre alle 17.30, nel teatro della Fondazione Collegio San Carlo di Modena, sarà Massimiliano Panarari ad offrire un’analisi con una comunicazione dal titolo “Stampa e potere. Dai grandi giornali ai media digitali”. Editorialista della Stampa, Panarari insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi nell’Universitas Mercatorum di Roma. Il suo intervento s’inserisce nel ciclo di conferenze “Rivoluzioni”; da questo termine così evocativo prendiamo spunto per una prima domanda.
Professore, è avvenuta davvero una rivoluzione nella stampa in questi ultimi due decenni? Oppure è in corso?
Sì, sta avvenendo una rivoluzione. C’è qualche luce, ma la mia sensazione è che prevalgano le ombre. Anzitutto il business model, fondato sul rapporto tra la vendita di copie, le inserzioni pubblicitarie e la capacità di influenza, è entrato in crisi con il digitale. L’idea dell’informazione come pilastro per le società liberal-democratiche della costruzione della sfera pubblica, continua ad essere nelle nostre teste, ma la realtà è cambiata. I principi che erano alla base della stampa tradizionale sono in parte stravolti, in parte ridotti come impatto, in parte consegnati a dei rischi enormi. Oggi quello che passa attraverso i nuovi media digitali – che dal punto di vista dei numeri hanno ampiamente vinto la loro gara con i quotidiani di carta – è una sorta di post sfera pubblica.
Oggi però sono i social a orientare l’opinione pubblica, più del tradizionale editoriale del direttore…
Il fondo del direttore di giornale, che a lungo è stata una forma di opinion making, oggi esiste ancora ma si rivolge a un pubblico molto più limitato nei numeri. Oggi purtroppo i giovani hanno una scarsissima dimestichezza, se non nessuna familiarità, con la carta stampata. È vero, le opinioni si costruiscono sui media digitali che tuttavia sono enormemente esposti a forme di propaganda non visibile.
Propaganda che finisce per influenzare persino le elezioni di altri Stati?
Ci sono Stati che lanciano il sasso e nascondono la mano, ovvero attivano agenzie di propaganda che non sono a loro immediatamente riconducibili. Oggi l’utente si forma un’opinione quasi sempre a partire da fonti non verificate, ma soprattutto si sente portatore di un’opinione, perché i media digitali hanno questa caratteristica, di essere orizzontali, basati sulla disintermediazione. Noi siamo sia utenti che attori attivi e diventiamo facilmente trasmettitori di fake news. Gli utenti diventano a loro volta piccoli megafoni, senza apparire come disinformatori. Nella logica peer to peer della rete, l’altro diventa affidabile perché mi è prossimo.
Come si fa oggi a difendere e monitorare la qualità e l’indipendenza della stampa?
È il grande tema. Una democrazia liberal-rappresentativa ha bisogno del pluralismo delle idee e delle opinioni, di una molteplicità di fonti informative tra loro in competizione. Oggi invece le piattaforme digitali vanno in una logica di oligopolio e tendono ad occupare tutti gli spazi, peraltro rifiutando di fare gli editori, cioè di assumersi la responsabilità. In più saccheggiano gli editori classici, e qui c’è un altro problema che riguarda il fatto che la buona informazione ha dei costi.
Cosa servirebbe?
Servirebbe che ci fossero lettori capaci di andare oltre le piattaforme, che non si abbeverassero solamente sui social network. Su questo c’è un problema generale della società che secondo me rimanda alla questione della scuola. L’Italia è un paese, com’è noto, con lettori deboli: in Europa è il fanalino di coda nella lettura. Occorrerebbe inoltre ricostruire meccanismi di finanziamento dei giornali, la cui abolizione è stata una grande battaglia del populismo e dell’antipolitica, e i risultati li abbiamo visti. A me sembrerebbe inoltre salutare l’idea che gli editori potessero aprire, anche per salvarsi, a formule di azionariato diffuso.
Twitter nelle mani dell’uomo più ricco del pianeta Elon Musk: c’è di che preoccuparsi?
Intanto 44 miliardi di dollari paiono una cifra non ragionevole che rimanda alla dimensione speculativa di bolla costante che caratterizza l’economia digitale. L’idea di Musk è quella di rendere Twitter più redditizio; è quindi verosimile che caleranno ulteriormente gli standard di sorveglianza, che la piattaforma si aprirà fortemente a forme di promozione commerciale occulta. Twitter è già ora una piattaforma di discussione pubblica inquinata da troll, infiltrazioni, haters e hate speech. Musk è un anarco-capitalista, la sua idea del free speech significa che l’inciviltà potrà aumentare ulteriormente. Questo preoccupa, ovviamente.
di Francesco Rossetti