Il disco della settimana: il ritorno alle origini dei Black Keys

The Black Keys – “Delta Kream”

Dopo un paio di album interlocutori, cercando di bissare il grande e forse inatteso successo di “El Camino” del 2011, i Black Keys tornano alle origini, a quel blues del delta del Mississippi sporco ed elettrico che li aveva fatti conoscere all’inizio degli anni 2000, e lo fanno con un album che omaggia i grandi artisti del genere che li hanno influenzati nel loro percorso di formazione musicale. “Delta Kream” è quindi un disco di cover, di classici più o meno noti di miti della ‘musica del diavolo’ come John Lee Hooker, Junior Kimbrough e R.L. Burnside, reinterpretati con il sound ruvido e la ritmica pulsante ed ipnotica tipici dei Black Keys. Una serie di canzoni registrate in un paio di giorni proprio negli studi di Dan Auerbach, che ormai alterna la carriera di musicista a quella, fortunata, di produttore e scopritore di talenti, e che vedono lo stesso Auerbach e Patrick Carney affiancati da alcuni musicisti esperti del genere come il chitarrista Kenny Brown e il bassista Eric Deaton, già collaboratori degli stessi Kimbrough e Burnside.

L’atmosfera che si respira è quella della jam session, del resto le registrazioni sono state fatte in presa diretta senza particolari artifici, con gli strumenti che si rincorrono e le voci dei leader a completare un groove decisamente trascinante, con la slide a fare la parte del leone e a creare un sound di grande intensità. Ed è proprio l’intensità la caratteristica principale di questo “Delta Kream” come è evidenziato dall’iniziale e classicissima “Crawling Kingsnake”, di cui si ricordano soprattutto le versioni di Big Joe Williams e John Lee Hooker, ma anche dalla più lenta e sensuale “Stay all night”, in cui il protagonista è alla ricerca di una notte di passione. Bellissima anche “Going Down South”, con un riff ripetuto che ricorda certi blues africani e la voce in falsetto di Auerbach a rendere il tutto ancora più affascinante, mentre “Sad Days, Lonely Nights” ha un intro strumentale che ricorda la “Boom Boom” di John Lee Hooker. Chiusura con la lenta e misteriosa “Come on and Go with Me”, che colpisce direttamente il cuore e l’anima. In conclusione un gran bel disco da ascoltare ad occhi chiusi e da cui farsi trascinare.

di Giovanni Botti

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