Smart Working, com’è e come sarà. Intervista al prof Rinaldini di Unimore

Lo smart working, o lavoro agile, è un fenomeno piuttosto recente. Per molti si tratta di una novità assoluta, praticata solo nell’ultimo anno, a seguito della pandemia e delle misure di contenimento del contagio. E’ una modalità che deve essere studiata e meglio regolata. Il Professor Matteo Rinaldini (foto), docente di Sociologia presso Unimore, è uno degli esperti che sono stati convocati dal Ministero del Lavoro per portare avanti la riflessione.

Professore, inquadriamo storicamente lo smart working? Quando nasce?
Forme di remotizzazione del lavoro esistevano negli Stati Uniti già negli anni ’70, poi si sono diffuse in Europa come telelavoro e, dagli anni ‘90, sono oggetto di specifica regolazione a livello europeo e italiano. Oggi, però, si parla di smart working e si intende altro. La normativa relativa, la legge 81/2017, introduce elementi di discontinuità rispetto al telelavoro. Consente, ad esempio, allo smart worker con contratto di lavoro subordinato di lavorare in azienda ma, potenzialmente, anche in qualsiasi altro luogo. Non si tratta, necessariamente, di domiciliarizzazione del lavoro.

Perché in altri paesi ha preso piede con più velocità?
Una prima ragione é la resistenza a mettere in discussione l’organizzazione del lavoro, perché lo smart working è vettore di cambiamento del modo di lavorare di tutti, degli smart worker, di chi lo smart working non lo fa e di chi ha ruoli gestionali. E’ il cuore del problema, però, e non va banalizzato tra “conservatori cattivi” e “innovatori buoni”. Mettere mano all’organizzazione del lavoro significa toccare equilibri di potere, relazioni e spazi di autonomia, costruiti con fatica nel tempo. La questione non si liquida parlando solo di “ritardo culturale” di imprese o lavoratori. Alla base della scarsa diffusione in Italia ci sono ragioni strutturali, legate al nostro tessuto produttivo e struttura occupazionale, e alle infrastrutture che in molte aree mancano, in primis quelle digitali. Non esagererei, però, nel confronto con altri paesi: i problemi che affrontiamo noi sono gli stessi in tutta Europa.

La pandemia ha impresso una forte accelerazione, quanto forte e in quali aree?
L’emergenza ha accelerato drammaticamente la remotizzazione del lavoro: prima lo smart working era limitato a poche realtà, si svolgeva per lo più in forma sperimentale in realtà metropolitane, come quella milanese. Con la pandemia, è diventato un fenomeno di massa su tutto il territorio: si stima che, durante il 2020 in Italia, tra 6 e 8 milioni di persone abbiano lavorato in remoto. La remotizzazione del lavoro in pandemia, però, è figlia di una normativa straordinaria, finalizzata a contenere il virus. Molti aspetti del lavoro in remoto, conosciuti in emergenza, non riferiscono alla legge 81. La remotizzazione del lavoro e le restrizioni alla mobilità di questo periodo configurano una modalità riconducibile più all’home working, cioè a una delle forme dello smart working.

Punti critici e punti a favore? Cosa riferiscono i lavoratori e cosa osserva lei?
Lo smart working è uno strumento che può favorire la conciliazione vita lavoro e i dati che abbiamo non indicano un abbattimento della produttività, anzi, in alcuni casi si è registrato un aumento. E’ necessario regolarlo per evitare che da opportunità si trasformi in rischio. Molti lavoratori evidenziano aspetti positivi e chi lo ha fatto nell’ultimo anno è, in maggioranza, favorevole a continuare in modalità mista, sottolineo mista, non totalmente in remoto. Le ricerche, però, fanno emergere anche delle criticità e il rischio di aumento delle diseguaglianze. Solo per citare alcune questioni critiche: l’isolamento sociale, il controllo della prestazione, le responsabilità su salute e sicurezza, la privacy del lavoratore, la riorganizzazione dei processi di lavoro, la riservatezza dei dati aziendali, l’equiparabilità dei diritti tra lavoratori in presenza e in remoto. Lo smart working, anche per la conciliazione vita lavoro, può diventare un boomerang se non regolato.

E la normativa deve stare al passo con la velocità delle trasformazioni in atto, su questo lavorate al Ministero?
Lo smart working è un’opportunità, ma bisogna capire come regolarlo oltre l’attuale emergenza. Il problema è: chi decide di attivare lo smart working? Come, quando e dove si può svolgere? Se lo smart working non è più di nicchia, ma riguarda milioni di lavoratori, quanto stabilito dalla legge 81/2017 è ancora adeguato? La legge parla di accordo tra singolo lavoratore e datore di lavoro, non esclude la contrattazione collettiva ma nemmeno vi rimanda esplicitamente. Si possono generare diseguaglianze? Queste sono alcune delle questioni a cui lavoriamo come gruppo di esperti convocati dal Ministero.

di Patrizia Palladino

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