Antonio “Rigo” Righetti e la forza della musica, intervista al bassista modenese

Il nuovo album di Antonio “Rigo” Righetti, il primo pubblicato dopo l’inizio della pandemia, si intitola “S.I.N.E” ed è una raccolta di brani interamente strumentali. Non proprio una novità per il bassista modenese, per anni nella band di Luciano Liguabe. Circa undici anni fa, infatti, ne aveva registrato un altro. “Si intitolava ‘Profondo Basso’ – ci spiega “Rigo” – ed era basato su alcuni grandi duetti. Già lì aveva trovato spazio questa mia anima strumentale che continuo a portare avanti”.

Rigo, come è nato questo nuovo album strumentale?
Sono pezzi che vengono fuori quando mi metto a improvvisare col basso. Li registro, quasi come appunti, in modo analogico. Poi alcuni di loro, liberati dalla zavorra, nel tempo finiscono per ritagliarsi una vita propria. In questo caso sono sei composizioni strumentali, più una sorta di provocazione, che fanno parte di un ‘concept’ che ho riprodotto nel titolo.

‘S.I.N.E’ è un titolo quasi misterioso, cosa significa?
Da un lato è un acronimo rafforzativo del sì in certi dialetti del centro-sud, è una sorta di ‘più che sì’ quindi un qualcosa di positivo. Ma sono anche le iniziali di “Sound It Never Ends”, un concetto che emerge da una particolare teoria di Guglielmo Marconi, l’inventore della radio. Negli ultimi anni della sua vita aveva maturato la convinzione che, essendo il suono una emissione di onde che va nello spazio dove noi siamo, con un mezzo adatto, quindi un microfono abbastanza potente, lo si può sentire per sempre. Addirittura faceva l’esempio che, se avessimo il microfono giusto, potremmo riascoltare il discorso della montagna di Gesù. Oppure, aggiungo io, il concerto di Woodstock o Elvis al Grand Ole Opry. Questa idea, che ribadisce la potenza della musica, mi ha particolarmente intrigato e ho pensato di darle una sorta di colonna sonora.

Gli strumenti li suoni tutti tu o c’è qualche ospite?
Il primo pezzo, “Shufflin’”, è l’unico in cui c’è una batteria vera e a suonarla è Tommy Graziani, il figlio di Ivan. Lui l’aveva registrata negli studi di suo padre a Nova Feltria, e me l’aveva mandata circa quattro anni fa. E’ rimasta per un po’ nell’hard disk, poi l’ho riascoltata e ho pensato di metterla nel disco. Il brano è un tributo allo shuffle, al tempo tipico del Texas blues, pur non essendo in realtà uno shuffle vero e proprio. Nella registrazione del disco, che ho effettuato a Modena ai Take Away Studios in via dei Sudeti, mi ha aiutato Andrea Pellicciari, che ha fatto il sound engineer, ha suonato alcune parti percussive e ne ha programmate altre. E poi un altro ospite di rilievo è Franco “The Place” Anderlini, che ha donato la sua armonica e si è ritagliato uno spazio importante. Ha suonato parti molto interessanti con uno strumento che ritengo davvero intrigante.

Dicevi che c’è anche una sorta di provocazione. Di cosa si tratta?
E’ un pezzo che si intitola “Tutto collegato” e ha un flow di metrica vicino alla cultura rap e hip hop, quella old-style. L’ho realizzato assieme a Frank Macro, che è uno dei progenitori della scena hip hop. E’ un brano che parla, fondamentalmente, di musica, di come questi valori, anche quelli della prima cultura dell’hip hop e del rap, continuino a trasmettersi. Sono valori molto simili anche se le generazioni sono diverse.

Questo disco a che pubblico è rivolto? Suonerai qualcosa anche dal vivo?
Guarda, stiamo facendo delle sperimentazioni, perché è un disco abbastanza bizzarro da portare in giro. Con Franco Anderlini, nei giorni scorsi, ho creato un po’ di basi per poterlo suonare e devo dire che il primo esperimento è andato bene. E’ un album che, per ora, si trova solo in formato digitale, ma ne sto preparando anche una versione in CD per i più nostalgici. A chi è rivolto? Direi sostanzialmente a chi ha curiosità.

Continui a scrivere anche canzoni, diciamo così, ‘classiche’?
Assolutamente si. Ho già pronto un disco cantautorale che vorrei registrare in maniera diametralmente opposta rispetto a S.I.N.E. Lo vorrei fare con una band. I pezzi ci sono già e, anche in questo caso, c’è una specie di ‘concept’ che mi interessa sviluppare. Sicuramente lo farò uscire entro il 2023.

Da musicista, acquisti ancora musica?
Si, soprattutto del vinile, in particolare nei mercatini. Ascoltare la musica è anche un atto rituale e io me lo ritaglio mettendo un disco sul piatto. In questi giorni sto approfondendo un bassista che mi è sempre piaciuto: si chiama Jamaladeen Tacuma ed è stato uno dei collaboratori dei primi tempi di Ornette Coleman. E’ un musicista molto funkeggiante, ma anche pronto all’improvvisazione. Ho trovato due suoi lavori da solista che non avevo e sono veramente interessanti.

di Giovanni Botti

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