“Un rito collettivo, un viaggio nella memoria, una suite in cui i pezzi sono legati da parti strumentali: come un’unica, lunga canzone”. A sentire Eugenio Finardi la serata di domani, mercoledì 18 settembre, alle 21 al Teatro Fabbri di Vignola, nell’ambito del Poesia Festival, ha tutta l’aria di essere qualcosa di speciale, non il ‘solito’ concerto. L’autore di “Musica ribelle” ed “Extraterrestre” salirà sul palco insieme a Raffaele Casarano (sassofoni) e Mirko Signorile (pianoforte), dopo la lectio di Giancarlo Pontiggia. L’ingresso è libero.
Eugenio Finardi, che effetto fa esibirsi all’interno di un festival dedicato alla poesia?
Questo concerto è di per sé un poema, come poteva esserlo l’Orlando Furioso, è un lungo flusso che all’interno contiene delle storie. Le suite in musica sono l’equivalente dei poemi, penso ai “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij. Il progetto è nato durante il lockdown: ho sentito il bisogno di coltivare una libertà creativa aggiungendo all’improvvisazione jazz, quella barocca, riferimenti classici, atteggiamenti blues, richiami al gospel, alla ricerca di una sorta di musica totale.
Ci sarà quindi spazio per l’improvvisazione?
Sì, per un 30-40% è improvvisazione. Può capitare che una sera trovi nella seconda strofa de “Le ragazze di Osaka”, una modulazione, un’armonizzazione inaspettata, un diverso atteggiamento ritmico. Del resto la musica è l’arte della probabilità, è un gioco matematico con tante espressioni ed è anche un collegamento con l’assoluto cosmico, con le leggi dell’universo. Di recente una signora alla fine dello spettacolo mi ha detto: non ho seguito mai un concerto di cui mi sentissi così responsabile.
“Le ragazze di Osaka” ha un testo poetico, non di immediata comprensione, perfino misterioso? Come nacque?
Lo scrissi insieme a Francesco Messina e a Battiato, è un testo che nasce da una conversazione abbastanza esoterica, anche da un mio momento di particolare solitudine.
Quanto sono importanti i testi nelle tue canzoni?
Io nasco musicista, però sono nato anche in due lingue – l’italiano e l’inglese – e questo mi da una particolare sensibilità, forse. Io poi sono un appassionato di traduzione, ma ho un enorme rispetto per la poesia e non mi sono mai permesso di pensarmi poeta.
Un testo l’hai tradotto: una bellissima versione di “One of us” di Joan Osborne: come nacque quella cover?
Nel ‘96 ero a casa dei miei a New York. Essere soli a New York è quasi una tortura, in più era inverno, c’era la neve, e questa canzone era ovunque: alla radio, negli ascensori, in taxi. Il testo è molto profondo, mi aveva molto colpito. La casa discografica mi faceva pressioni per fare una cover, pensavano a un pezzo del passato, io invece ho scelto quel pezzo lì, e da una sorta di imposizione ne ho fatto una creazione personale.
Cosa ne pensi del Nobel a Bob Dylan? È letteratura?
Sì, lo è. L’Iliade comincia con “Cantami o diva”… Io però gliel’avrei dato in condivisione con Leonard Cohen. Cohen scriveva testi meravigliosi. Fu Fabrizio De André, di cui io aprii la sua prima tournée nel ‘75, a chiedermi di tradurgli i testi di Cohen perché non era contento delle traduzioni che trovava in giro.
Sei per metà americano: chi preferisci? Harris o Trump?
Sono democratico da sempre, in questo caso non c’è neanche da discutere.
Hai citato Franco Battiato e Fabrizio De André, ma volevo chiederti di un altro cantautore, Lucio Dalla, che suona il clarinetto in “Valeria come stai”. C’era una collaborazione tra voi?
Devi capire che negli anni ‘70 eravamo una specie di grande collettivo ed era naturale collaborare. Ero alla Palazzina Liberty di Dario Fo, a Milano, quando Lucio presentò in anteprima “Come è profondo il mare”. Ero nel retropalco e me lo ricordo emozionatissimo perché era il primo disco di cui aveva scritto le parole. Aveva un modo brusco di essere fraterno, amichevole, molto bolognese. Quando eravamo in studio, ci si poteva trovare alla macchina del caffè o al parcheggio, e diceva, oh senti c’è un pezzo che ho voglia di venire a fare, arrivava col suo clarinetto… Riesco ancora a figurarmelo.
Posso chiederti cosa pensi dell’educazione musicale in Italia?
Penso che il nostro concerto sia facile da ascoltare, ma se conosci la musica ti accorgi che è piuttosto complesso. Il pubblico si sente coinvolto, ma non ha la minima idea di come questo effetto venga prodotto. Sì, c’è un problema di educazione musicale. Tanto che ho intenzione di farne la battaglia, come dire, finale sulla mia vita. La gente mi chiede: ma sei ancora impegnato? Sì, ma il mio impegno ora va in quella direzione. Vorrei insegnare l’ascolto, le basi, il mistero, la magia della musica. Lo puoi fare anche proponendo un certo tipo di spettacoli.
(di Francesco Rossetti)