Il disco della settimana: ‘Cruel Country’, il ritorno alle origini dei Wilco

Wilco – ‘Cruel Country’

I Wilco sono una delle band più importanti del cosiddetto Alternative Country americano. Fondati nel 1994 da Jeff Tweedy dopo lo scioglimento dei mitici Uncle Tupelo, hanno registrato dodici album in studio evolvendo il loro stile dal roots-rock dei primi due a un sound più ricercato e a tratti anche sperimentale come dimostrano dischi come “Summerteth” (1999) o “Yankee Hotel Foxtrot” (2002), ristampato proprio l’anno scorso in occasione del suo 20° anniversario in una succulenta edizione deluxe. Allo scorso maggio risale anche la pubblicazione del nuovo album della band di “Chicago”, uscito però, ai tempi, soltanto in versione digitale e arrivato finalmente nei negozi proprio in questi giorni anche in supporto fisico. Il disco si intitola “Cruel Country”, è doppio, come lo era stato lo splendido “Being There” ad inizio carriera, e rappresenta una sorta di ritorno alle origini di Tweedy e compagni, anche se il Country del titolo lo avevano solo sfiorato nei primissimi album.

Ventuno canzoni tendenzialmente intime e scarne, figlie più che degli ultimi lavori non proprio straordinari dei Wilco, della produzione recente da solista di Jeff Tweedy, in particolare l’ottimo “Love is the King” del 2020. Registrato in presa diretta negli studi della band “The Loft” di Chicago, “Cruel Country” contiene sì riferimenti alla musica a stelle e strisce per antonomasia, ma è un country alla Wilco, decisamente lontano dalla sua accezione più tradizionale. E’ vero che il ritmo cadenzato della title track fa venire in mente certe canzoni di Gram Parsons e la stessa cosa vale per la più ritmata “A Lifetime to find”, ma bisogna anche dire che la maggior parte dei brani del disco sono più inseriti in un territorio alternative folk e folk-rock. Ad esempio la scarna ed acustica “Ambulance”, cantata da Tweedy con voce a tratti sussurrata, ma anche la più ricercata “Tonight’s the Day”, l’intrigante medley “Bird Without a Tail / Base of My Skull”, e la conclusiva e pigra “The Plains”. Decisamente un bel disco.

di Giovanni Botti

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