‘Tasmania’, un romanzo che coglie lo spirito del tempo. Intervista a Paolo Giordano

Il nuovo romanzo di Paolo Giordano – Tasmania (Einaudi) – ha il dono di cogliere lo spirito del tempo, rifuggendo alle retoriche, attraverso una scrittura calda ed elegante. Innesca un processo di identificazione rispetto agli anni che stiamo vivendo, mentre la frase finale svela il senso profondo dell’opera (e per questo non la riveleremo qui). A fine gennaio Giordano è stato protagonista di un incontro al Forum Monzani, per una rassegna sempre molto attenta alla qualità della proposta.

John Lennon diceva che “la vita è ciò che ti accade quando sei intento a fare altri piani”: può valere anche per il protagonista del tuo romanzo?
Forse la vita è quello che accade mentre ci si preoccupa per il futuro. Il protagonista è molto concentrato sulle minacce incombenti e oggi questa è una mediazione che tocca un po’ a tutti noi. C’è una parte di noi collegata a una proiezione nel futuro spesso un po’ angosciosa, e che rende a volte più faticoso accorgersi della vita che accade, perché la vita è fatta di slittamenti minimi. Nel romanzo le relazioni del protagonista sono raccontate per piccoli movimenti che poi sono quelli che fanno un’esistenza. Nel frattempo i ‘grandi guai’ sono diventati qualcosa di molto più presente rispetto a qualche anno fa.

Perché il romanzo prende avvio dalla conferenza sul clima del 2015 a Parigi?
Mi è venuto naturale partire da quel novembre perché io stesso mi ero dimenticato di quella strana coincidenza temporale tra la conferenza sul clima e l’attentato del Bataclan. Se ci pensi, due eventi che hanno inaugurato un’epoca. Di sicuro l’idea di una crisi ambientale è uscita dallo specialismo degli scienziati ed è diventato un tema condiviso da tutti noi.

Ma è vero che l’ambiente è un tema noioso?
Sì, l’ho sperimentato su di me. Quando scrivi, ti accorgi subito se qualcosa è noioso o più vibrante. I rischi ambientali sono un argomento che ci riguarda tutti, ma sono difficili da rendere seducenti, sexy, vicini, intimi. La narrazione sul clima ci fa sentire distaccati, è un po’ eventuale, generica, elusiva, e questo si traduce in un senso di noia.

Il tuo protagonista sta cercando di scrivere un libro sulla bomba atomica. Quanto le nuove generazioni sono coscienti della minaccia nucleare?
Quello che sta cambiando è il rapporto con il trauma che quell’evento ha generato. La bomba atomica è diventata qualcosa di storico con il quale si perdono i contatti diretti. Non a caso questo coincide con la scomparsa degli ultimi testimoni. Trovo preoccupante che negli ultimi mesi si sia parlato con disinvoltura del possibile uso di armi nucleari. Vuol dire che nel frattempo quella storia è diventata qualcosa di davvero lontano.

È vero che viviamo un’epoca in cui siamo tutti anestetizzati rispetto al presente?
Oggi il mondo ti arriva addosso in continuazione, e le nostre difese si fanno più alte. I cicli di shock e assuefazione sono diventati molto rapidi. Pensa al periodo degli attentati, alla velocità con cui ci siamo abituati a vivere quel periodo, poi lo shock del Covid che siamo riusciti in un tempo relativamente breve a riassorbire, e ora la guerra in Ucraina che già la scorsa estate sembrava un sottofondo normale. M’interessa molto come la nostra emotività reagisce a questi eventi.

È un romanzo fatto di personaggi vividi: Novelli, per esempio, mi ha fatto pensare a certi virologi dei nostri ultimi anni…
In effetti il personaggio di Novelli nasce non solo da incontri personali, ma dall’osservazione della realtà, dall’aver vissuto questi due anni in cui gli scienziati si sono trovati alla ribalta mostrando la loro umanità, quindi anche la loro vanità. Al tempo stesso nel romanzo ci sono personaggi molto intimi: ho abbastanza ‘saccheggiato’ persone a me vicine. Ed è uno dei motivi per cui ho sentito di dover restituire in cambio delle parti di me più personali. Altrimenti mi sarebbe sembrato uno scippo. È un libro su una cerchia di affetti: ognuno dei personaggi porta dentro di sé un pezzo dell’epoca che viviamo.

Come ti sei trovato nelle vesti di co-sceneggiatore per “Siccità” di Virzì?
Molto bene. Il lavoro sul soggetto del film è cominciato in pieno lockdown. Attraverso la chiave della siccità, abbiamo trovato un modo per rappresentare quello che stava succedendo con la pandemia, prendendo spunti dall’osservazione quotidiana.

Dirigere il Salone del Libro di Torino ti interessa?
Ho inviato la mia candidatura. Rimango in quieta attesa per la scelta che verrà fatta e che dovrà tenere conto di molte istanze, immagino.

È vero che ci sono echi di Don Delillo nel tuo romanzo?
È uno scrittore che amo molto. Dopo mesi e mesi di pandemia, quasi non riuscivo più a leggere narrativa. A un certo punto mi sono anche un po’ spaventato. Il romanzo che mi ha riconciliato e che è stato forse il più importante innesco per “Tasmania” è stato proprio “Rumore bianco” di Delillo, che è appena uscito con una nuova traduzione.

di Francesco Rossetti

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