L’Archivio Storico del Collegio San Carlo, ce lo racconta il presidente della Fondazione Albarani

Rendere viva la storia del passato è il punto di partenza per comprendere il presente e immaginare il futuro. Specie per un’istituzione, come la Fondazione Collegio San Carlo, con quasi quattro secoli di vita alle spalle. In quest’ottica, nell’ambito del “Laboratorio duemilaventisei”, percorso di progettazione partecipata in vista dei suoi quattrocento anni, la Fondazione ha aperto al pubblico le porte del proprio archivio storico, attraverso uno speciale approfondimento in streaming dal titolo “Carte, inchiostri e caratteri in archivio”, presentato in occasione della settimana regionale dell’educazione al patrimonio archivistico. “Si tratta di un mediometraggio diviso in tre parti che si può vedere sul nostro canale Youtube”, ci ha detto Giuliano Albarani, presidente della Fondazione. “Noi, attraverso il nostro foglio periodico del Laboratorio duemilaventisei, un portale parallelo rispetto a quello istituzionale della Fondazione, facciamo operazioni di attualizzazione del nostro patrimonio. C’è la riproposizione di conferenze, di contributi scritti che erano nelle nostre riviste e anche di documenti d’archivio, che vengono presentati in successione, contestualizzati e potenziati con altri contributi multimediali”.

Che periodo coprono i documenti del vostro archivio?
Praticamente tutta la storia del collegio, che è nato nel 1626 come Collegio dei Nobili di Modena cominciando subito ad accumulare carte che riguardano anche l’istituzione che ne ha promosso la creazione e cioè una congregazione di laici devoti denominata Congregazione della Beata Vergine e di San Carlo. Non mancano però carte che risalgono a tempi precedenti la fondazione del collegio e che sono state recuperate.

Che tipo di documentazione si trova?
E’ una documentazione che riguarda i convittori del collegio, che fino alla metà dell’800 sono sempre e solo aristocratici destinati a diventare classe dirigente, ma anche i membri della congregazione. Ci sono atti notarili, perizie, mappe, documenti dell’economato, regolamenti e, cose fra le più importanti, le carte relative all’educazione e alla formazione che veniva impartita all’interno del collegio. E’ un materiale molto copioso che ci fa vedere l’evolversi delle metodologie e delle scelte disciplinari per formare la classe dirigente del futuro.

Da questi documenti emerge qualcosa di particolare?
La prima cosa che colpisce lo sguardo dell’osservatore è la centralità che aveva la cultura e la tecnica compositiva musicale nella formazione delle classi dirigenti, una cosa impensabile oggi. Poi ci sono altri aspetti legati ad una cultura aristocratico-cavalleresca, la scherma ad esempio o le attività motorie e competitive al tempo stesso.

Anche i duchi venivano educati nel Collegio?
I duchi avevano, in molti casi, dei precettori privati e non partecipavano alla vita del collegio. Però ci sono documenti che riguardano la corte Estense, ad esempio il giuramento di matrimonio con cui il duca di Parma Ranuccio Farnese sposa la cugina Isabella d’Este nel 1664.

Il collegio era frequentato solo da aristocratici modenesi o c’era anche un rapporto con l’esterno?
Qui sono passati personaggi importanti che hanno avuto biografie rilevanti anche fuori dal contesto modenese. Inoltre c’è un sistema di relazioni del collegio e della congregazione che va oltre Modena. Ad esempio c’è un fascicolo interamente dedicato alle misure sanitarie adottate in occasione della peste di Marsiglia del 1720, con anche indicazioni sulle azioni di tipo liturgico e religioso da adottare in quel contesto.

Si parlava prima della trasposizione in digitale dei documenti. Questa può avvicinare agli archivi anche coloro che non sono studiosi o addetti ai lavori?
Assolutamente si. Il digitale ci permette di accompagnare il documento con una serie di suggestioni e contenuti che da solo non produrrebbe. Faccio l’esempio degli spartiti che abbiamo nel nostro archivio storico. Se uno li accompagna con la descrizione della loro provenienza e magari l’esecuzione stessa della musica che contengono diventano qualcosa di molto diverso e possono attirare l’attenzione anche di chi non è specificamente uno studioso.

Avete in programma di allestire delle mostre con il materiale contenuto nell’archivio?
Si certo, abbiamo già iniziato con la mostra dedicata al fondo di Emilio Mattioli, donato dalla famiglia. La logica è quella dell’utilizzo dell’archivio e della biblioteca come elementi di arricchimento delle proposte culturali che offriamo alla città. Quindi non mostre a sé stanti, ma collegate ai temi di riflessione che sviluppiamo nelle attività conferenziali e in quelle con le scuole.

(di Giovanni Botti)

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