“Poco mossi gli altri mari”, esce il romanzo di Alessandro Della Santunione

Restiamo uniti. Al principio di “Poco mossi gli altri mari”, il romanzo di Alessandro Della Santunione che oggi (15 febbraio) approda in libreria per i tipi di Marcos y Marcos, c’è la scelta di una famiglia emiliana di condividere la stessa abitazione: per “ottimizzare le risorse” e non disperdere “un non meglio specificato patrimonio”. Poi succede l’impensato: non muore più nessuno e questa convivenza tra bisnonni di 142 anni, figli, genitori, nonni, fidanzate e cognati diventa una sorta di circo dai tratti disperatamente comici.

Davanti a un caffè di via Carteria chiedo ad Alessandro se il famigerato lockdown da Covid sia stato una fonte di ispirazione.

“No, l’idea è precedente. Il lockdown mi ha però permesso di lavorare con maggiore concentrazione a una narrazione più articolata rispetto al racconto breve.”

L’assunto è non muoia più nessuno: di per sé sembrerebbe un fatto positivo. Però mentre il presente si dilata, il futuro scompare. È una chiave surreale per parlare dell’oggi, del modo in cui viviamo?

“Sì, tutto ciò che afferisce al futuro non si sviluppa mai. La voce narrante ripete spesso “ma andiamo avanti”, ma è un intercalare finto. Non è che non accadono cose, penso alla festa privata de l’Unità, ma a me interessa far venire fuori questo restare bloccati in una situazione che non ha evoluzione, come una spirale che si avvita su sé stessa. Questa sì, è una condizione che a tutti capita di provare.”

Cioè?

“Capita che a un certo punto ti rendi conto che il mondo in cui sei vissuto tu, semplicemente non c’è più. Mentre il mondo che ha da venire non si palesa, quantomeno non ne hai preso le misure. Avresti voglia di andare avanti, ma non sai come e dove andare. Per questo l’io narrante prova una sensazione di claustrofobia, ha voglia di andare, prendere la bicicletta e raggiungere la campagna, ma il paese non finisce mai.”

Il tema della famiglia è molto presente…

“Sì, ed è un tema ambivalente. La famiglia come istituto ha fatto il suo tempo, però con cosa la sostituiamo? L’io narrante è caustico perché su certe cose la famiglia lo ingabbia. Allo stesso tempo è una sorta di rifugio che si fa fatica ad abbandonare.”

A un certo punto si scopre che Dio è morto. E qui entra in giorno un altro tema: la religione…

“Sì, era l’ultima delle consolazioni: se viene a mancare ti accorgi che gli aspetti fideistici, soprannaturali e spirituali non sono stati sostituiti da nulla. Nel libro, quando muore Dio, il lutto è vissuto come se fosse morto uno della famiglia. Il problema è che viene a mancare quella ‘persona’ che ci veniva a consolare quando moriva qualcuno.”

Terzo tema: Campogalliano, il paese dove sei nato. Perché ci hai ambientato la vicenda?

“Perché è un po’ la mia Macondo, un paese piccolo di provincia con dinamiche in cui chiunque sia nato in provincia si può riconoscere. E poi l’ho ambientato lì perché avevo bisogno di collocazioni precise nella mia testa.”

Insomma, tutto sommato resiste il mito delle radici?

“Un po’ di radici sono necessarie, ma non credo alla nostalgia retorica per la famiglia com’era una volta. Oggi l’identità te la costruisci negli anni, mantenendoti aperto a quello che assorbi dall’esterno.”

Sotto un tono leggero, spesso divertente, il libro ha una sua vena un po’ disperata. È così?

“Sotto sotto il libro parla della morte, di come sia stata sempre più allontanata anche come concetto. Quando l’ispettore dell’Inps arriva a casa per controllare tutti questi ultracentenari, trova una serie di fine-vita molto dilatati. La morte è il grande rimosso, ma se viene a mancare, viene a mancare la vita.”

Nel romanzo a un certo punto scrivi che “bisognerebbe amarsi di nascosto dagli altri”. Bisogno di privacy?

“Sì, è una specie di pudore che andrebbe protetto. Adesso va di moda far vedere a tutti quello che fai, mentre ci sono cose che hanno più valore se te le tieni per te.”

Cosa fai nella vita, oltre a scrivere?

“Faccio tutt’altro: mi occupo di turismo sportivo. E leggo molto.”

I tuoi riferimenti letterari? Ti riconosci nella scuola emiliana, da Malerba a Ugo Cornia?

“Mi ci riconosco perché è un tipo di letteratura che ho frequentato e che mi piace molto. Anche se non credo che la scrittura di questo libro sia poi così emiliana come potrebbe sembrare. Mi piacciono Boris Vian, Georges Perec, Thomas Bernhard, moltissimo Antonio Delfini. E Daniele Benati, formidabile.”

L’autore presenterà il romanzo sabato 25 febbraio alle 18 alla libreria Ubik di Modena (via dei Tintori 22), in dialogo con Vincenzo Scalfari.

di Francesco Rossetti

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