Il disco della settimana: “Closure / Continuation”, il ritorno dei Porcupine Tree

Procupine Tree – “Closure / Continuation” 

In tanti, molto probabilmente, hanno sentito parlare dei Porcupine Tree e del loro istrionico leader Steven Wilson quasi esclusivamente per il giudizio decisamente negativo espresso qualche tempo fa sui Maneskin, definiti “terribili” e “una copia scadente di altri”. Al di la di queste parole che hanno scatenato sui social fan e detrattori della band romana, quello che a noi interessa maggiormente è che Wilson è un grandissimo artista, il più importante rappresentante del nuovo Prog, e che i Porcupine Tree sono il più significativo dei suoi tanti progetti (tra gli altri, oltre a una ottima carriera solista, ricordiamo i No Man, assieme a Tim Bowness, e i Blackfield, con il polistrumentista israeliano Aviv Geffen).

Di un nuovo album della band britannica, il primo dallo storico concerto tenuto alla Royal Albert Hall di Londra nel 2010, se ne parlava da tempo e ora l’attesa è diventata realtà. “Closure / Continuation”, questo il titolo, contiene dieci brani in tipico stile Porcupine con una tendenza in parte più hard prog rispetto a certi lavori precedenti. E il risultato è stato subito notevole anche commercialmente parlando, visto che l’album è arrivato al numero 1 in Inghilterra e Germania e al numero 4 persino in Italia. Un disco intrigante, come quasi tutti quelli di Wilson e soci, con canzoni mediamente lunghe e suonate in modo perfetto dallo stesso Wilson, per l’occasione anche al basso, e dai pard Gavin Harrison (batteria e percussioni) e Richard Barbieri (tastiera e sintetizzatore).

Per quanto riguarda le canzoni segnaliamo l’iniziale “Harridan”, oltre 8 minuti di musica guidata da un basso pulsante, che si pone sulla scia di certe cose dei King Crimson, la successiva “Of The New Day”, tendenzialmente più intima e pop, nonostante i cambi di umore tipici del gruppo, e l’interminabile “Chimera’s Wreck”, quasi 10 minuti aperti da un delizioso arpeggio in stile Genesis. La chiusura è affidata alla più ritmata e popeggiante, ma parecchio intrigante, “Love in the Past Tense”. Un gradito ritorno che speriamo non resti un unicum.

di Giovanni Botti

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