Il disco della settimana: ‘The Future Bites’, l’evoluzione pop di Steven Wilson

Steven Wilson – ‘The Future Bites’

Uno degli album più attesi di questo inizio di anno piuttosto avaro di novità interessanti per gli amanti della buona musica, era sicuramente il nuovo lavoro solista di Steven Wilson. Il musicista inglese è uno dei principali artefici della rinascita del Prog sia alla guida dei Porcupine Tree, gruppo basilare per le nuove generazioni del genere, che con altri svariati progetti, dai Blackfield, la band in cui collabora col polistrumentista israeliano Aviv Geffen, agli album a suo nome, tutti di qualità sopra la media. Ottimo chitarrista, compositore colto e ispirato, ma anche grande manipolatore di suoni (lo dimostrano le ristampe che ha curato di classici del genere, dagli Yes, ai King Crimson fino ai Jethro Tull), Wilson ha sempre amato sperimentare qualcosa e fare un passo avanti rispetto ai lavori precedenti.

E questo vale anche per il nuovo disco, The Future Bites”. Se il precedente “To the Bone” aveva rappresentato una svolta pop rispetto ad album complessi quanto geniali come i capolavori “The Raven That Refused to Sing” (2013) e “Hand Cannot Erase” (2015), con suoni più anni ‘80 e il Peter Gabriel solista nella mente, “The Future Bites” fa un passo ulteriore verso il pop e certe sonorità elettroniche, comunque usate sempre con gusto. La tematica alla base del disco è il narcisismo che si è ormai impossessato della razza umana, tutta concentrata alla ricerca della celebrità e dell’apparire e il manifesto in tal senso è la lunga e ricercata “Personal Shopper” (quasi 10 minuti), dedicata allo shopping online che diventa sempre più compulsivo.

Nove sono le canzoni nella track-list (ma esiste anche un’edizione deluxe limitata con diversi brani in più), nelle quali Wilson spazia dal classic-pop di “12 Things I Forgot”, che potrebbe essere anche un ottimo singolo per la radio, al funky in stile Blaxploitation di “Eminent Sleaze”, fino alla pinkfloydiana “Man of the People”, un brano che ricorda alcuni episodi dei Blackfield. “Follower” è decisamente più rock e riporta alla mente certe sperimentazioni anni ‘80 di David Bowie, mentre la conclusiva “Count of Unease”, con la sua atmosfera sognante, ritorna su territori più propriamente Prog. Un album che forse farà storcere il naso ai fan della prima ora di Steven Wilson, ma che, ascoltato senza preconcetti, risulta sempre più piacevole e intrigante.

di Giovanni Botti

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