La vita e i suoi alti e bassi in 27 canzoni. Ellen River e il nuovo album “Life”

Modena e il grande sogno americano a volte non sono così lontani. Del resto Francesco Guccini, in una celebre canzone, paragonò la campagna padana che circonda la nostra città al west. Sicuramente l’America, nella sua accezione migliore, è nel cuore e nella musica di Ellen River, cantautrice modenese che potrebbe benissimo essere nata in Texas o in Arizona. E questa è la sensazione che viene ascoltando il suo nuovo, bellissimo, album “Life”, un lavoro monumentale, ben 27 canzoni, che fonde country, folk, rock, soul, registrato con una band di musicisti per la maggior parte emiliani e romagnoli. Noi di Vivo l’abbiamo incontrata a Dischinpiazza in via Castellaro.

Ellen partiamo dal titolo. Perché proprio “Life”?
E’ un titolo che è arrivato con il tempo. Avevo raggruppato queste 27 canzoni, frutto di una scrematura ulteriore perché c’erano diversi altri brani che avrei voluto inserire. Un calderone di emozioni, esperienze personali, racconti e storie sentite, uno spettro talmente ampio che “Life” mi è sembrato il titolo più adatto. E poi negli anni del covid, ho avuto un problema di salute molto grosso, è come se per me ci fosse stata una morte e una rinascita, quindi il titolo “Life” è ancora più significativo perché vuol dire raccontare un po’ la vita, i suoi saliscendi, l’altalenarsi delle emozioni, delle esperienze belle e brutte.

Rispetto al primo album, “Lost Souls”, “Life” sembra essere più tuo, contenere di più le tue radici, le tue passioni musicali…
E’ assolutamente vero. Sono contenta che tu abbia colto questo aspetto. “Lost Souls” era la mia opera prima come Ellen River ed era stato fatto con un approccio, se vogliamo, molto vintage.  Lo registrai in live recordings in pochissimi giorni di studio, con una band oliata e di grande esperienza che poteva anche essere lasciata libera di suonare e improvvisare senza il bisogno di fare sessioni di studio separate, come invece ho fatto con “Life”. Però già quel disco dava l’idea di come ero fatta a livello musicale, quale era il mio Dna da questo punto di vista. Con “Life”, invece, ho proprio deciso di aprire le porte, far correre i cavalli e dire “ok ragazzi io sono anche tutta questa, anzi soprattutto questa” e mi sono permessa il lusso di inserire tutte le influenze che mi hanno accompagnata nella vita, tutta la musica che mi muove le corde e mi fa emozionare. Ho cercato di tradurla a mio modo, ovviamente, creando un mio genere, una mia visione dell’Americana Music.

Un doppio album con 27 canzoni è una scelta coraggiosa…
Ma guarda non l’ho pensato così mastodontico in partenza, ho voluto rappresentare tutto quello che avevo dentro e ogni canzone si è meritata il proprio posto. E’ come se le canzoni mi avessero guardata negli occhi e mi avessero detto “ti prego io ho la mia storia da raccontare, tienimi”. Perciò ho fatto una scelta e le 27 che hanno saputo essere più convincenti le ho inserite nel disco. Non è stata altro che l’esigenza di esprimere tante emozioni perché “Life” è un contenitore di emozioni e di vita. Da un certo punto di vista non poteva non essere ampio.

Componi ancora le canzoni nella tua mente prima di cercare la melodia sulla chitarra?
Si, questo aspetto visionario c’è sempre, le canzoni suonano prima nella mia testa, come fossero in una stanza, e io sento già gli strumenti che vorrei inserirci, gli arrangiamenti e il mood che vorrei dare loro. Questa è rimasta la parte, diciamo, più visionaria del mio modo di scrivere. Poi c’è l’altra parte, quella compositiva con la chitarra, che mi aiuta molto di più a esplorare delle sonorità. Anche solo da una corda pizzicata può partire tutto un mondo di immaginazione. Diciamo che il mio modo di scrivere più che cambiato è forse maturato, c’è stata una maggior presa di coscienza di quella che sono e che vorrei comunicare, una presa di contatto con la mia essenza. “Life” è anche questo.

Due pezzi mi hanno particolarmente incuriosito: lo strumentale “Resonance” e “Out of the Storm”, un brano indie-rock, apparentemente fuori contesto rispetto agli altri. Me li racconti?
“Resonance” per me ha una grande importanza perché è un pezzo costruito sopra i suoni della risonanza magnetica. Ascoltando con attenzione in sottofondo si sentono, ovviamente abbassati perché altrimenti sarebbero insopportabili. Chi ha avuto esperienze con la risonanza sa bene cosa significhi rimanere dentro un tubo per tanto tempo con solo le cuffie, questo rumore assordante e il fiato sospeso per l’attesa del risultato che non ti arriva subito. C’è ansia, frenesia nello stare fermi li dentro e io ho voluto immaginare che questa canzone potesse sovrastare il rumore della risonanza, che fosse come un motivetto da fischiettare come antidoto per quel momento in cui l’immaginazione aiuta tanto. E poi è un piccolo, millesimale, tributo alle atmosfere di Morricone che io adoro.

E “Out of the Storm”?
“Out of the Storm”, secondo me, è stata una scelta coraggiosa, perché in effetti potrebbe sembrare un po’ fuori contesto. In realtà non lo è perché ha un suo filo conduttore a livello compositivo e di tematica, e comunque in “Life” ci sono anche tante influenze rock. Nello specifico questa canzone ha un ritmo ipnotico, ripetitivo, un po’ come succedeva nella musica grunge degli anni ’90. E’ un brano molto forte anche perché sembra sempre che parta ed esploda, ma non succede. Uno si aspetta un’evoluzione o un colpo di scena che non arriva mai. E’ una canzone che spezza un po’ rispetto alle altre pur mantenendo una sua coerenza.

Perché come singolo hai scelto proprio “Life”, il pezzo forse più westcoastiano dell’album?
“Life” è un brano dove c’è una contrapposizione, come era successo in “Lost Souls”. Fa parte del mio stile musicale analizzare le luci e le ombre che ci sono nelle storie, nelle persone, nelle relazioni. Del resto la vita è questa, un alternarsi di alti e bassi, di allegrie e tristezze. “Life” in tal senso l’ho trovata perfetta perché a livello lirico è molto schietta e dura, mentre come melodia è leggera e frizzantina, se vogliamo sbarazzina. L’ho scelta come singolo perché mi piaceva questo connubio che rispetta il chiaro e scuro della vita.

Anche la copertina è molto Americana. Come è stata scelta?
Ma guarda, per la copertina si era partiti con idee diverse, poi quando ho visto quella foto sfocata ho pensato: “E’ la mia”. Spesso nella vita non vediamo molto chiaro, o perché si è in un momento di defiance e non si riesce a vedere le cose come sono, oppure perché sono le cose che stanno accadendo che non sono chiare. Mi viene sempre in mente una frase di Guccini che interpretava il preside in un film di Pieraccioni (“Ti amo in tutte le lingue del mondo” ndr) e diceva in dialetto “An vad menga cier, a ghè d’la foschia”. E’ una frase che mi è rimasta impressa perché la vita è così. E poi in questa foto c’è anche un sorriso, che rappresenta il mio approccio alla vita, il cercare di sdrammatizzare, prendere le cose con ironia, il ché non vuol dire essere superficiali, ma cercare di affrontare le cose da un altro punto di vista.

Hai mai scritto una canzone in italiano?
Si ne ho scritte e ho avuto anche delle band, quando avevo 15-20 anni, con cui cantavo in italiano. Però già nei miei diari di scuola trascrivevo soprattutto canzoni in inglese e anche i pensieri che mi appuntavo mi venivano più naturali in inglese. Non è come può pensare qualcuno nascondersi o scappare dalle responsabilità dei miei testi, è solo una via comunicativa diversa che mi offre una maggior libertà espressiva rispetto al genere di musica che mi piace fare.

Se dovessi consigliare tre dischi a qualcuno che vuole conoscere le tue radici, il tuo background musicale?
Se devo sceglierne proprio tre dico innanzitutto “Car Wheels on a Gravel Road” di Lucinda Williams, un disco con tantissime atmosfere diverse. E poi sceglierei “Bubblegum” di Mark Lanegan, un musicista che adoro avendo io vissuto in pieno gli anni ’90. Infine un album dei Creedence Clearwater Revival, perché mi fanno stare benissimo.

Dal vivo dove ti possiamo ascoltare?
Il 22 di giugno sarò al Parco Lennon di Castelnuovo con la band al completo. Poi il 30 suonerò al Parco Amendola e il 1°luglio in piazza XX settembre per la festa dell’Albinelli, anche in questo caso con la band. Infine l’8 luglio sarò ospite di Arti Vive a Soliera, suonerò prima dei Brian Jonestown Massacre che mi piacciono tantissimo.

di Giovanni Botti

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