L’esordio al cinema di Alessandro Marzullo. Intervista al regista modenese, trapiantato a Roma

“Non credo in niente” è il film d’esordio di Alessandro Marzullo (foto), trentenne modenese che venerdì 10 maggio sarà alla Sala Truffaut per incontrare il pubblico dopo la proiezione. Presentato al Festival del Cinema di Pesaro, il film scandaglia l’anima di quattro ragazzi alla soglia dei trent’anni, in bilico tra aspirazioni e quello che la vita offre.

Alessandro, come hai concepito e realizzato il film?
Ho avuto modo di pensarci tanti anni. Una volta scelto il tema, ho deciso di farne un film indipendente con un impianto underground, e ho iniziato a svilupparlo su tutti i fronti contemporaneamente. Di solito si scrive un soggetto, si sviluppa una sceneggiatura, si fanno varie stesure, dopodiché con la produzione si vagliano le possibilità, si sceglie il cast attraverso i provini, si va a fare le riprese. Ecco, tutte queste parti in questo caso sono state mescolate assieme: mentre scrivevo la sceneggiatura, facevo il casting, cercavo le location e sviluppavo le musiche.

Quando hai girato?
Quattro giorni a settembre 2020, altri quattro a maggio 2021 e ulteriori quattro a giugno 2021. con la piena complicità della troupe e degli attori. Ho girato scene slegate senza sapere quale sarebbe stato poi l’ordine finale che poi abbiamo raggiunto in fase di montaggio.

I lockdown come hanno influito?
Stavo seguendo altri progetti, il Covid li ha buttati all’aria, quindi ho pensato di cambiare anch’io e ho deciso di fare un film così, senza aspettare ancora. Il cinema in Italia è una macchina molto lenta. Per fare un film, dalla prima idea alla realizzazione e all’uscita, possono passare 5, 6, 7 anni di media.

Il film è girato in pellicola: perché?
Perché per me il cinema è quello. Era in pellicola il cinema di cui io mi sono innamorato da bambino. L’immagine digitale, con cui comunque devo avere a che fare dato che ormai la pellicola è un lusso, non fa per me. C’è sempre qualcosa che è troppo simile all’immagine che può produrre uno smartphone, con cui oggi si possono fare film. Non i miei, però.

Non trovi che l’industria delle serie tv porti a una standardizzazione del linguaggio cinematografico?
Sì, assolutamente, ma questo vale per tutto. Una volta si sentiva in giro che era importante essere contro l’omologazione. Nell’ultimo decennio questo discorso si è ribaltato, c’è quasi un fanatismo per il prodotto, per la brandizzazione di qualsiasi cosa. Viviamo in un’economia di mercato dove è più facile vendere qualcosa che è già noto alle persone. Quando si propone qualcosa di nuovo c’è sempre molto scetticismo. Le serie tv poi si basano sugli algoritmi. Conosco registi che hanno lavorato per queste piattaforme dove decide gente di Milano, da chissà quale ufficio, con chissà quali credenziali, che ti dice quello che tu devi fare. Per me non ha senso.

Quindi le serie tv non le guardi?
Solo quelle di commedia, se mi fanno ridere, altrimenti “Twin Peaks” che è tutto il contrario di quello che ho appena detto.

Perché hai girato sempre di notte?
Volevo restituire i sapori della mia generazione, trentenni o venticinquenni, non cambia molto, e questo è un periodo notturno per i giovani, soprattutto in Italia che è diventato il paese più vecchio del mondo dopo il Giappone, quindi la notte era l’ambiente naturale.

Che Roma esce fuori dal film?
Una Roma accartocciata su se stessa, incapace di cambiare, ma forse non è la città che deve cambiare, dovrebbero essere le persone che la vivono. A Roma hai solo la sensazione di stare al centro del mondo, ma in realtà non stai da nessuna parte. La Roma del film è una città che si vede di sfuggita dal finestrino della macchina.

Come ti sei approcciato al cinema? Fin da bambino?
Provengo da una famiglia lontana da qualsiasi cosa che possa essere una professione artistica. Da bambino il gioco era fingere con i pupazzetti, ricreare scene ovviamente improbabili. Guardavo i film in televisione a tutte le ore del giorno e della notte. E mi ricordo le prime volte che sono andato al cinema con i miei genitori. I film mi colpivano per qualcosa di astratto, per la percezione di vedere quelle immagini e sentire quei suoni, e gli attori.

Quando ti sei trasferito a Roma?
Sono andato via da Modena nel 2013. A Roma perché è l’unica città in Italia dove si può vivere dicendo alle persone che tu vuoi fare il regista senza essere preso in giro. Non avevo contatti, ma sono riuscito nel mio piccolo a trovare qualche opportunità per iniziare. Di fatto sono ancora agli inizi: gli inizi in Italia durano tanto, nel mondo del cinema ancora di più.

Che scuola hai fatto a Modena?
Ho fatto il Guarini. Esiste ancora?

C’è qualche film che ti è piaciuto ultimamente?
“La chimera” di Rohrwacher e una serie di opere prime: “Una sterminata domenica”, “Patagonia”, “Gli oceani sono i veri continenti”. Ma anche “Babylon” di Chazelle e “La zona di interesse”.

di Francesco Rossetti

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