“Ogni estate a Lubecca”, Carlo Gregori racconta il suo romanzo in buona parte autobiografico

“Ogni estate a Lubecca” (Incontri editore) è un titolo pieno di risonanze che evoca la stagione delle vacanze e insieme un luogo che solo a nominarlo trasuda fascino nordico. Ma non è solo la città dei Buddenbrook di Thomas Mann, Lubecca è anche un luogo chiave nell’esistenza di Carlo Gregori (foto), perché è lì che si radica la sua famiglia per parte di madre. Il giornalista e scrittore, nato a Milano, ma modenese dall’età di 7 anni, fa i conti con i ricordi più personali della sua storia familiare per raccontare un ‘mondo’, un passaggio d’epoca. “Il mio è un libro per tre quarti autobiografico e per un quarto no. Per questo lo definisco romanzo. Il mio riferimento in questo caso erano Henry Miller, oppure Bruce Chatwin, la convinzione che le proprie esperienze non vadano considerate alla stregua di mera testimonianza, ma come una leva archimedica per far luce su un’epoca e risollevarla, se possibile”

Metti in gioco la tua infanzia e la tua prima adolescenza: è così?
Sì, questo libro parte dalla mia nascita (1962) per arrivare alla metà degli anni ‘70. Ogni estate si partiva dall’Italia per Lubecca, la porta tedesca sulla Scandinavia, ma anche una città-stato con una secolare storia di autonomia, conclusa nel 1937 da Hitler. La vacanza era un appuntamento rituale per ricongiungersi a un’altra parte della famiglia, molto diversa da quella italiana.

Diversa sotto quale aspetto?
Intanto erano molto più giovani della famiglia di mio padre, venivano dalla buona borghesia locale, ereditavano una storia di cosmopolitismo e floridezza commerciale, tranciata di netto dal bombardamento del 1942, quando Lubecca venne rasa al suolo dagli inglesi. Mia madre era piccola, ma si è portata dietro tutta la vita i segni dello stress post traumatico. Poi venne la guerra fredda e Lubecca si ritrovò vicina al confine con la DDR. Io e mio fratello Cesare (alla cui memoria dedico il romanzo) fummo testimoni del tramonto di un’epoca per approdare a un eterno presente. Vorrei far rivivere questi stati d’animo di paura e di divertimento.

Il viaggio era in auto?
No, sempre in treno, con il wagon-lit del notturno blu che partiva da Milano e arrivava a Copenaghen. Poi anche treni più normali dove ho conosciuto il mondo del Sud Italia che emigrava per lavoro. Approdavamo in un paese, la Germania, molto più proiettato nel futuro rispetto all’Italia.

Qual era il divario tra i due Paesi?
La Germania a un certo punto si è posta delle domande. C’è stato un momento, negli anni ‘60, in cui i figli (la generazione di mia madre) hanno cominciato a chiedere ai genitori che ruolo avevano avuto nel nazismo. Qualcosa che in Italia non è mai stato fatto. Da noi spesso si è perpetrato un mito nostalgico e sentimentale del fascismo (del tipo come si stava bene). In Germania i figli non hanno fatto sconti.

Il libro è articolato in capitoli tematici: ce n’è uno dedicato alla musica, e del resto in esergo citi i Rolling Stones…
Non è un caso, perché mia madre è Ruby Tuesday. Viveva con quello spirito degli anni ‘60 in cui uno voleva realizzare la sua vita senza voler rendere conto alle convenzioni sociali che ancora erano molto forti.

Un altro capitolo prende le mosse dal cibo. Chi ha vinto nella tua famiglia: l’Italia o la Germania?
Dopo un primo periodo di spaesamento e diffidenza, mia madre ha rinunciato senza pentimenti ai piatti tedeschi. Ne ha salvati solo tre.

Quali?
Una volta all’anno i crauti coi wurstel non potevano mancare. In autunno il gulash con i porcini e infine la crema di mele. Ma ho un ricordo preciso dei rituali dell’apparecchiatura della tavola, dell’uovo sodo di mattina. Il pesce a Lubecca, ovviamente, era una specialità.

M’incuriosisce il capitolo sui vagabondaggi: di che si tratta?
Di un’educazione sentimentale con la natura di cui ho avuto esperienza in Germania, dove l’ambientalismo ha radici molto più antiche e diffuse che da noi. La stessa Greta Thunberg viene da quella cultura. Racconto la tradizione della Wanderung, cioè quei vagabondaggi dentro i boschi e in montagna che sono una scuola di crescita e di controllo delle proprie paure.

Perché hai smesso di andarci, a Lubecca?
Questo è il senso del libro: raccontare il processo di consapevolezza di una persona. Un processo che non si esaurisce mai.

Tua madre ha letto il libro?
Lo sta leggendo. Ogni tanto mi telefona per dirmi che si commuove e sono felice che abbia deciso di non querelarmi.

di Francesco Rossetti

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