Il mondo cambia, e l’Italia è distratta: il nuovo libro di Stefano Feltri

Dopo una folgorante carriera dentro ai quotidiani, culminata nella direzione del Domani, il modenese Stefano Feltri, uno dei migliori giornalisti della generazione intorno ai 40 anni, ha dato vita alla newsletter (con podcast) “Appunti”. Nel frattempo ha pubblicato “10 rivoluzioni nell’economia globale (che in Italia ci stiamo perdendo)” (Utet, 19 euro), un libro articolato in dieci capitoli che affronta temi globali.

Stefano, prima di tutto: cos’hai fatto dopo l’esperienza di “Domani”?
Ho costruito un equilibrio lavorativo che tiene insieme due aspetti della mia vita recente: quello più strettamente giornalistico e quello legato al mondo accademico che ho ripreso a frequentare dopo l’esperienza all’università di Chicago. Nello specifico lavoro come communication advisor per un nuovo think tank della Bocconi che si chiama Institute for European Policymaking e che si occupa di politica europea.

Cosa fai esattamente?
Faccio da ponte tra i professori e la discussione pubblica, li aiuto a scrivere. Invece che con giornalisti, mi relaziono con professori, ma il lavoro è lo stesso: scrivo pezzi, realizzo podcast, cerco di veicolare un grado minimo di conoscenza condivisa tra specialisti ed esperti che altrimenti spesso non riescono a partecipare a una discussione comune.

Però ti sei inventato anche la newsletter “Appunti” che in qualche modo è un work in progress in costante crescita: è così?
Infatti, quella  è l’altra metà del mio lavoro: ci scrivono in tanti, quindi c’è anche lì un investimento collettivo, quasi come un piccolo giornale. Ma scrivo anche su Vanity Fair e Internazionale, faccio il tutorialista di Milano Finanza, curo “Le parole dell’economia” su Radio 3, sono autore televisivo per “Petrolio” (Rai3) e tengo anche un corso di giornalismo all’Università di Bologna.

Beh, hai una agenda piuttosto piena…
Sì. La differenza è che quando fai il direttore di un quotidiano, fai una cosa sola a tempo pieno; ora invece da libero professionista posso permettermi di fare più cose, il che da un certo punto di vista è più divertente, dall’altro richiede una gestione del tempo più accorta, perché devi incastrare tutto.

Il primo capitolo del tuo libro affronta il grande tema dell’intelligenza artificiale: perché l’Italia si sta in qualche modo perdendo questa grossa scommessa?
Quando ci sono queste innovazioni epocali, sono due gli approcci possibili: uno è cercare di regolarle, e quello lo puoi fare meglio a livello europeo che a livello italiano; l’altro è scegliere se fare resistenza o cercare in qualche modo di adeguarsi. In Italia questa discussione non c’è nei talk show. Ho letto i documenti del governo, della commissione di meccanismi sull’intelligenza artificiale: la vedono dal punto di vista del diritto d’autore che, seppur importante, non è certo l’aspetto più rilevante. Invece l’intelligenza artificiale è una tecnologia di applicazione generale che potenzialmente cambia il modo in cui facciamo tutte le cose.

Puoi fare un esempio rispetto alla tua esperienza personale?
A “Domani” pagavo illustratori, professionisti bravi, fumettisti per fare le illustrazioni; ora per “Appunti” ricorro all’intelligenza artificiale e non tornerei indietro, pur con tutto il dispiacere per quelle persone che stimo, ma dal punto di vista del tempo e del prezzo non c’è confronto. Inoltre lavoro molto in inglese: poter contare su un supporto dell’IA per correggere le differenze che ci sono tra il modo in cui scrivo in italiano e il modo in cui scrive un madrelingua, è fondamentale.

L’IA sarà anche una possibile fonte di lavoro?
Senz’altro. C’è un primo livello di competenze che è quello di saper padroneggiare le applicazioni della nuova tecnologia: in questo caso un consulente che sappia spiegare alle aziende come usare gli strumenti già disponibili di sicuro avrà molto lavoro. Poi ce n’è un altro più sofisticato che è padroneggiare il modello, saper analizzare i dati in modo specifico. Con questo non dico che tutti debbano studiare l’intelligenza artificiale, ma almeno acquisire quelle competenze minime che ti permettano di stare dentro la discussione. In Italia, ripeto, questo approccio qui non ce l’abbiamo.

E il resto del mondo?
I cinesi e gli indiani non ragionano come noi. L’India, per esempio, sta facendo cose che dovremmo guardare con attenzione perché è un paese poverissimo, ma sta scegliendo di percorrere una strada molto tecnologica verso lo sviluppo, senza passare dall’industrializzazione di tipo novecentesco. Allora chiedo: se l’India con un paese di un miliardo e 400 milioni di persone è in grado di fare un salto tecnologico, di creare un’identità digitale per tutti che prometta di integrare servizi finanziari e burocrazia, com’è possibile che in Italia il massimo che si riesca a fare è litigare sullo Spid?

Altro argomento: la globalizzazione. Sembra un concetto passato di moda: è così?
Il mondo è sempre influenzato dalle mode intellettuali. Ora c’è questa idea che siamo entrati in una fase diversa in cui bisogna anteporre le esigenze della sicurezza a quelle del commercio, che era sbagliato pensare che la sicurezza derivasse dalla liberalizzazione dei commerci. Non abbiamo la controprova, ma continuo a pensare che sia molto pericoloso rinunciare a quello che abbiamo costituito perché ci ha garantito una stagione complicata ma di pace e prosperità, che soprattutto ha fatto emergere dalla povertà centinaia di milioni di persone.

A giugno voteremo per l’Europa: con quali prospettive?
Oggi si sostiene che anche l’Europa debba diventare più autonoma, che debba spendere di più per le spese militari invece che per le infrastrutture: è una convinzione ideologica, ma non è detto che una maggiore spesa militare e una minore integrazione economica ci garantiscano di stare tranquilli. È chiaro che se, dopo l’invasione della Crimea, l’Europa non avesse aumentato la dipendenza al gas da Putin sarebbe stato meglio: quello fu un caso di eccesso di cinismo.

Abbiamo già perso la battaglia per evitare il riscaldamento globale?
Certo oggi non siamo sulla traiettoria giusta, non stiamo raggiungendo l’obiettivo fissato a Parigi nel 2012 di tenere il riscaldamento entro il grado e mezzo rispetto all’età preindustriale. Tuttavia, non è che se arriviamo a 1½ gradi è uguale che se arriviamo a 2½ gradi, quindi bisogna comunque fare tutto quello che si può. È complicatissimo in un mondo in cui la globalizzazione si frammenta, perché non ci possono essere soluzioni globali, ma non è il momento di arrendersi. Osservo però una cosa: pensavamo che queste dovessero essere elezioni europee ‘climatiche’, invece sembra che non freghi assolutamente niente a nessuno. Come sempre sono diventate elezioni esclusivamente nazionali.

Ricordo che tu sei un appassionato di fumetti e graphic novel: li segui ancora?
Sì, assolutamente, solo un po’ meno di quando avevo una rubrica settimanale sul “Fatto quotidiano”.

L’IA sostituirà i fumettisti?
No, perché qualunque opera d’arte non è esclusivamente un disegno, un prodotto, ma un’esperienza legata alla biografia dell’autore, al contesto culturalenel quale si forma: ci sono tante cose che l’intelligenza artificiale magari può replicare, ma non può costruire da zero una personalità.

di Francesco Rossetti

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