Ritratto di coppia mista in un interno. Alessandro Berti presenta “Blind Love”, in scena al Teatro Tempio

(Foto Marika Puicher)

“Ogni amore non può che essere cieco”, canta Tom Waits in “Blind Love” e la canzone dà il titolo alla pièce scritta e diretta da Alessandro Berti, anche interprete insieme a Rosanna Sparapano, in scena al Teatro Tempio fino a domenica 22 maggio. È una coppia mista, lei di colore, lui bianco, che discute nella propria camera da letto. Un dialogo senza sconti sui propri sguardi reciproci, sui pregiudizi che inconsciamente ci portiamo dietro.

Alessandro, come si innesca il confronto tra i due?
In modo casuale. Invece che dirle “per pranzo ti andrebbe più una pizza o un sushi”, lui tira fuori un argomento che scatena una discussione. Le domanda: che desiderio è un desiderio per qualcuno che è fermo, legato? Parte un dialogo molto franco sulle dinamiche del desiderio interraziale tra due persone peraltro impegnate su questi temi. Una coppia quasi di attivisti. È per questo che lui pensa di potere facilmente coinvolgerla in un discorso anche su aree delicate che forse non avevano mai affrontato.

Blind Love: come hai scelto questo titolo?
L’aggettivo ‘blind’ è centrale rispetto ai temi delle differenze e del razzismo. Quando si parla di ‘color blindness’ s’intende il fatto di non vedere più la differenza di colore: per qualcuno è una conquista, per altri invece una grande forma di ipocrisia. Nello spettacolo lei chiede a lui: ma mi vedi? Riesci a vedermi? Lei sostiene che lui la guardi attraverso un filtro. Per un altro verso ‘Blind Love’ significa anche perdere qualcosa di se stessi, quasi accecarsi per riuscire ad amare e acquisire generosità.

Perché continua a essere così centrale il colore della pelle?
Perché sussistono molti fantasmi a riguardo, questioni irrisolte. Oltretutto oggi il dibattito tende a essere polarizzato. Si discute molto su chi abbia il diritto di parlare di cultura black. Qual è la vera cultura black? Chi ne ha legittimità?

Un dibattito che interessa più negli Stati Uniti che noi?
Ma sta arrivando anche qua. Per esempio nelle università. C’è una corrente di pensiero secondo cui le nostre conquiste dell’Illuminismo abbiano funzionato solo grazie alla tratta e alla schiavitù. Un’impostazione radicale, anche legittima per certi versi. È di questo tipo di mood che i giovani e le giovani che studiano questi temi oggi, sono impregnati.

Un vizio occidentale è forse la tendenza a esercitare un certo ‘paternalismo’ rispetto ad altre culture. È per questo che lei, il personaggio, manifesta fastidio?
Assolutamente. Lei ha buon gioco nell’accusarmi che la nostra è una ragione strutturalmente bianca e maschile. A sua volta lui sostiene che quando l’ossessione identitaria supera una certa linea, poi si trasforma in una guerra perpetua. Chi ha ragione? In qualche modo entrambi. Peraltro lo spettacolo ha un andamento in cui la vera protagonista è lei. Volevo davvero dar voce a una donna italiana afrodiscendente che esprime tutta la sua voglia di esserci.

Da dove ha origine questo tuo interesse per la black culture?
Da un fatto molto preciso. Nel 2017 mi sono trasferito nel centro di Bologna in un posto chiamato “casa vuota”. Al piano di sotto c’erano due appartamenti con ragazzi africani sbarcati da poco, in inserimento lavorativo. Questo vicinato ha cominciato a farmi riflettere. Quell’estate è successo anche quel fatto tremendo dello stupro di Miramare ai danni di una ragazza polacca da parte di quattro ragazzi neri. Mi colpì molto la facilità con cui i giornali italiani identificavano il corpo del maschio nero come una sorta di ‘stupratore naturale’. Ho cominciato a studiare: diritto coloniale, la storia degli Stati Uniti. E ho capito che erano temi che mi toccavano in profondità, in quanto maschio bianco.

Del resto in Italia, razzismo e colonialismo sono temi rimossi, mai affrontati seriamente…
Temi che apparentemente sembrano lontani ma in realtà arrivano, perché riguardano il potere, la disponibilità di aver diritto alla parola.

“Blind Love” ha qualcosa del dramma da camera strindberghiano?
Se devo trovare riferimenti, mi trovo di più nelle pause in stile anglosassone. Pinter, per certi versi. Cassavetes. Quella tensione, quel modo di far risuonare le pause, come se fosse un’altra battuta.

Questa creazione è figlia del lockdown?
Il primo quarto d’ora mi venne chiesto da Anna de Manincor di Zimmerfrei, per un film-installazione. Poi mi è venuta voglia di continuarlo. Ora sono felice di presentarlo a Modena.

di Francesco Rossetti

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